L’agricoltura da sola non va da nessuna parte. Ha bisogno di ripensarsi in funzione della domanda finale dei consumatori, sviluppando una capacità di trasformazione della materia prima, anche alleandosi con l’industria. Il Friuli è troppo piccolo sia per competere sui volumi – e quindi prezzi, di produzione -, sia per disperdersi in mille nicchie. Secondo Claudio Filipuzzi, però, non è più tempo di analisi: ne sono state fatte fin troppe, ora bisogna passare dalle parole ai fatti, scardinando quelle resistenze di conservazione che nel settore agricolo friulano sono ancora predominanti. Da quattro anni, Filipuzzi presiede il Parco agroalimentare di San Daniele, un’agenzia di distretto del tutto particolare, che da tempo è uscita dal proprio ambito territoriale proponendosi come sostenitrice di nuove idee imprenditoriali.
Conviene a un giovane, oggi, mettersi in gioco in agricoltura?
“Va fatta la premessa che in questo settore esiste una barriera di ingresso rappresentata dal capitale iniziale, superiore rispetto ad altri tipi di attività. Se un giovane, però, intende debuttare può farlo se ha idee chiare e innovative. Questo significa che deve tenere presente come valorizzare il proprio lavoro, come trasformare il prodotto e dove e come venderlo. Da troppi anni l’intero settore si è dedicato soltanto alla produzione, dimenticando i processi a valle e lasciandoli agli altri, che ne hanno così ricavato il maggiore valore aggiunto. Oggi, a maggiore ragione in una realtà piccola come quella friulana, il settore primario non è in grado di stare in piedi da solo. Abbiamo allevamenti avicunicoli di qualità, ma per macellare portiamo gli animali in Veneto. Abbiamo essiccatoi, ma nessuna amideria;in frutticoltura, la cui produzione è marchiata da altri, nessuna trasformazione, se non marginale. I nostri birrifici artigianali stanno crescendo, ma non abbiamo una malteria. Alla fine, così, anche se riusciamo a realizzare un’agricoltura di pregio, lo sforzo non viene mai ripagato”.
Come è possibile cambiare?
“Guardando cosa chiede il mercato, poi alleandosi per sviluppare la trasformazione e, solo dopo, seminando nei terreni. In un mosaico di soluzioni, per esempio, a livello colturale mancano completamente le tessere del gluten free e degli alimenti salutistici, segmenti di mercato che hanno oggi indici di crescita a doppia cifra”.
Cosa sta succedendo nel ‘laboratorio’ del Parco agroalimentare?
“Quando sono arrivato, nel luglio 2010, alcuni processi erano già avviati, altri li ho pretesi. Ad esempio, l’abbandono della promozione, in cui sono già troppi gli enti a occuparsene e che deve essere fatta da una regia regionale. Quindi, ci siamo concentrati sull’assistenza tecnica per la trasformazione agroalimentare. L’università fa ricerca, ma non riesce a trasferire i risultati all’impresa. L’Ersa, poi, fa molta sperimentazione, ma limitatamente alla fase colturale. Noi ci siamo posti l’obiettivo di accompagnare nel primo miglio una nuova idea o un nuovo prodotto, individuando il processo di trasformazione più adatto, fino al test di mercato. Se tutto funziona, allora l’impresa può iniziare a camminare da sola.
Inoltre, abbiamo stretto rapporti collaborativi con le strutture sanitarie, colmando il solco tra controllore e controllato. Molto spesso, infine, diventiamo ‘traduttori’ tra la lingua dell’impresa e quella delle istituzioni”.
Il vostro modello può insegnare qualcosa alla riforma dei distretti industriali?
“Non può esistere un format unico di distretto valido per ogni settore, perché le esigenze sono spesso completamente diverse. Quel che è certo, comunque, è che i ‘nuovi’ distretti non vanno più perimetrati territorialmente, perché i modelli produttivi sono completamente cambiati. Devono spesso guardare oltre il proprio settore, coinvolgendo tutti gli operatori dei servizi alle imprese, dalla logistica alla finanza.
Soprattutto, devono fare poche cose e bene, in uno scenario quindi di ridefinizione dei compiti di società pubbliche, Camere di commercio, università, Ersa”.
In un contesto economico profondamente cambiato, perché le associazioni di categoria non si sono ancora ripensate?
“Il loro problema, come è successo anche nella burocrazia e nei sindacati, è che in tempi completamente diversi sono diventate organizzazioni grandi, complesse e costose, che oggi per spirito di autoconservazione mettono in secondo piano la propria mission originale, cioè quella di difendere gli interessi delle imprese associate. Per esempio, vivono ancora di servizi anacronistici, come certe pratiche fiscali o amministrative. E se il governo dovesse avviare una vera semplificazione, come annunciato, si ritroveranno in grossa difficoltà. Ci vorrebbe più coraggio nel constatare che il mondo è profondamente cambiato e che devono cambiare altrettanto profondamente anche loro”.
In passato, lei ha messo anche un piede nell’agone politico, partecipando a Liberidea e candidandosi alle regionali nel 2008: che valutazioni ha tratto da quella esperienza?
“Rispetto al mio percorso, ha rappresentato una parentesi marginale. Il mio approccio, comunque, era stato disincantato: sapevo bene che i partiti, come le organizzazioni, ti avvicinano fin quando sei utile e poi ti scaricano. Quel che mi ha deluso e mi ha allontanato, invece, è la mancanza di consapevolezza della realtà e l’incapacità di vedere nuovi modelli manifestata dalla maggior parte dei politici. Usando una simbologia, se un farmaco non guarisce non devi aumentarne la dose, ma cambiare farmaco. E poi, basta analisi e progetti: ne sono state fatti fin troppi, ora la realtà è sotto gli occhi di tutti e dalle idee bisogna passare ai fatti”.
Come valuta la politica agricola dell’attuale amministrazione regionale?
“Ha fatto bene, come primo passo, ad accorpare l’agricoltura all’interno di un unico assessorato alle Attività produttive, anche se è diventato ancora più impegnativo il lavoro di Sergio Bolzonello. Per esprimere un giudizio sulla politica agricola è ancora presto: dobbiamo aspettare almeno il nuovol Psr. Intravvedo, comunque, già l’idea interessante di far interagire l’agricoltura con gli altri settori”.
Può fare un suo bilancio della promozione del Tocai-Friulano?
“È stato un fallimento. Prima è stata fatta una guerra in difesa del nome, sapendo già che era persa. Poi, sono arrivati i dieci milioni per il Friulano, i quali, anziché servire per lanciare sul mercato internazionale un vino ‘nuovo’, sono stati sprecati per un prodotto dal consumo prettamente domestico e il cui mercato si è rapidamente saturato”.
Cosa pensa della questione degli Ogm, in cui proprio il Friuli è diventato un caso nazionale?
“Appare una guerra di religione, con radicalismi contrapposti. Invece, è una questione meramente economica. Anche ammettendo che non abbiano e non avranno mai conseguenze ambientali o sulla salute, negli stessi Paesi che li hanno adottati è in crescita la domanda di prodotti Ogm free, cui proprio la nostra agricoltura può dare una risposta. Il problema di fondo è che si è lasciata la ricerca completamente appannaggio delle multinazionali, che ovviamente non hanno avuto interesse a realizzare analisi epidemiologiche, mentre avrebbe dovuto essere il pubblico il vero protagonista, visto che l’ingegneria genetica sarà sempre e comunque una leva importante, non solo per l’agricoltura. Ricordiamo che chi controlla il seme controlla la fame. E costui non può essere un’impresa privata”.
Che idea si è fatto della ‘guerra del latte’ in corso tra Latterie Friulane e Consorzio Agrario?
“È una guerra tra poveri. Il settore lattierocaseario friulano non ha dimensioni tali da potersi permettere divisioni e contrapposizioni interne: o ci si salva tutti, oppure si va tutti a fondo. Serviva un polo unico regionale,a maggior ragione alla vigilia dell’abolizione delle quote latte”.
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