Il 6 maggio 1976 in Friuli la terra trema, spazzando via in pochi istanti paesi interi. Alle nove di sera un rumore cupo, sordo, irrompe nella quotidianità delle famiglie friulane, molte delle quali sedute a tavola, riunite per la cena.
Un terremoto di magnitudo 6,4 della scala Richter, e intensità pari al IX-X grado della scala Mercalli, colpisce un’area di 5.700 chilometri quadrati, per 59 interminabili secondi, questa la durata della scossa principale. Epicentro del sisma il monte San Simeone. La zona a nord di Udine è la più colpita: Majano, Buja, Gemona, Venzone, Osoppo, Magnano, Artegna, Colloredo, Tarcento, Forgaria e la fascia pedemontana, i comuni e le zone più colpite. I danni sono immensi, stimati all’epoca in 4.500 miliardi di lire. Altissimo il tributo pagato dal Friuli, con 989 vittime, tra cui molti bambini, circa 3.000 feriti e quasi 200.000 persone senza casa.
Quella sera la terra tremò ancora e lo fece per molti mesi fino all’11 settembre dello stesso anno, quando si registrarono altre due scosse piuttosto intense, tra i 7,5 e gli 8 gradi della scala Mercalli, e che riaccesero la paura in un popolo già tanto provato.
Soltanto l’alba del 7 maggio ’76 svelò al mondo e ai friulani la tragedia, i morti e le case squarciate. All’epoca non c’erano smartphone, Internet, Facebook o Twitter a gridare e raccontare al mondo in tempo reale quello che era accaduto. Il mattino seguente nei paesi colpiti si respira soltanto polvere e ovunque sono visibili i segni della distruzione. E’ così che le immagini del sisma fanno il giro del mondo, disvelando un territorio devastato, squarciato.
Gli aiuti
Rientrarono nella Piccola Patria i friulani che vivevano e lavoravano all’estero e da ogni parte d’Italia giunsero i soccorsi. Tra maggio e ottobre, per esempio, settemila giovani scout si alternarono nei cinque centri affiliati all’Agesci presenti sul territorio, prestando assistenza ai terremotati, allestendo le tende, occupandosi del servizio mensa, dei bambini e dell’animazione scolastica, e della distribuzione del materiale. Se inizialmente fu un movimento spontaneo, dettato dalla volontà di singoli giovani o di piccoli gruppi, nel giro di qualche giorno prese forma un’organizzazione che consentì di distribuire in modo capillare e mirato i volontari scout fin nelle zone più remote, alcune delle quali nei primi giorni difficilmente raggiungibili. A Udine, l’Agesci allestì una centrale operativa, per gestire i volontari e gli aiuti materiali, nei locali messi a disposizione dalla parrocchia del Carmine in via Aquileia. L’esercito italiano, ma anche quello statunitense, canadese, francese, austriaco e tedesco si adoperarono per consentire al Friuli di ritornare al più presto alla “normalità” e cominciare a ricostruire.
Il Friuli terremotato, moderna Fenice, non ha perso tempo, e la macchina dei soccorsi prima e della ricostruzione poi hanno tracciato la storia della nostra regione e rinvigorito l’orgoglio friulano. La tenacia e la laboriosità di un popolo martoriato, assieme all’aiuto delle istituzioni, ha reso possibile la ricostruzione del Friuli terremotato a tempo di record.
Resta e resterà per sempre, trasmesso alla generazioni future quasi fosse parte del proprio corredo genetico, il ricordo del terremoto, un evento che ha segnato inequivocabilmente un popolo e la sua storia, rafforzando l’animo della gente e, se possibile, rendendola ancora più vicina alla propria terra.
Il ricordo di Alessandro Ponsiglione
“Del 6 maggio 1976 conserviamo pochi ricordi, ma non dimenticheremo mai il giorno dopo – raccontava qualche anno fa nella rubrica Armstrong, pubblicata sul settimanale il Friuli, Alessandro Ponsiglione -. Partiti da Tarvisio con una squadra di soccorso, abbiamo trascorso l’intera notte per raggiungere Gemona a causa delle condizioni della strada, dalla qualle spesso abbiamo dovuto rimuovere i massi che la occupavano. Sul posto arrivammo verso le 6 del mattino e già era operativo un coordinamento dei soccorsi, che ci considerò idonei soltanto a distribuire vaccini antitifici in pastiglie; cosa che abbiamo fatto per giorni e giorni, e ne andiamo fieri.
La polvere che trasformava i nostri visi in maschere bianche, il caldo innaturale, le macerie sono i ricordi più netti, ma il comportamento dei gemonesi è la memoria più intensa. In giorni e giorni non abbiamo visto una lacrima o sentito un lamento. I gemonesi erano furenti e pervasi dalla voglia di porre immediato rimedio al disastro.
In certi punti della città si camminava a dieci metri di altezza a causa delle macerie e attorno a noi c’era un formicolio di persone che lavoravano accanitamente : chi scavava, chi portava tende e brande e picchettava, altri facevano posto alle autobotti dell’acqua che arrivavano. In poche ore fiorirono cucine da campo e tutti aiutavano tutti.
Fu un miracolo del lavoro umano perché in pochi giorni le strade divennero percorribili, la popolazione trovò dove andare e l’esercito e i volontari non fallirono un obiettivo. Rimosse le macerie, salvati i salvabili, l’unico pensiero dei meravigliosi gemonesi fu rivolto al futuro: ricostruire, tornare alla vita di prima, rimettersi al lavoro e ‘ripristinare’ il lavoro. Sì, davvero un miracolo. Non soltanto a Gemona”.