Se, in generale, i consumi alimentari sono in un profondo stato di depressione, così non è per gli alimenti biologici, le cui domanda e offerta continuano a crescere. Su questo treno di opportunità, però, il Friuli fa fatica a salire, manifestando più di una contraddizione, a partire dal fatto che oggi in regione si consuma molto più cibo bio di quanto si produca, per passare alla vicinanza geografica poco sfruttata di un mercato enorme e sensibile come quello germanico.
Ne parla Cristina Micheloni, responsabile del Comitato Scientifico dell’Associazione italiana agricoltura biologica (Aiab).
Rispetto a un settore agroalimentare in sofferenza di consumi interni, che fase storica sta vivendo il ‘segmento’ biologico?
“Al contrario dell’andamento generale, il biologico sta vivendo un momento molto vivace e positivo sul fronte dei consumi. Nel primo semestre dell’anno ha registrato, infatti, un aumento del 14,2%, rispetto a un dato del convenzionale in calo dell’1,4 per cento. Assistiamo, poi, anche a una chiara evoluzione per quello che riguarda la produzione: più aziende biologiche, più grandi e condotte da agricoltori mediamente più giovani.
Anche l’attenzione da parte dei consumatori e dei media è molto alta. Rispetto a qualche anno fa, ci troviamo a confrontarci con persone molto più informate e desiderose di ‘comprendere’, cosa che rende il tutto di maggiore soddisfazione.
Insomma, al contrario del resto dell’agroalimentare il biologico non solo regge, ma continua a crescere anche in tempi cupi come quelli attuali”.
Nell’ultimo anno il tessuto produttivo italiano è cresciuto, quello friulano invece è stabile: come va letto questo dato?
“Il Friuli Venezia Giulia paga il prezzo della mancanza di un’organizzazione commerciale che possa veicolare congiuntamente e valorizzare i prodotti locali, sia in regione, sia fuori.
Non mettiamo nemmeno a valore la vicinanza con mercati seri e in continuo sviluppo come quello austriaco e tedesco, nonostante la prossimità geografica. Tuttavia, vorrei ritornare sul mercato locale, perché siamo ancora alla paradossale situazione per cui in Friuli si mangia molto più bio di quanto se ne produca e ciò continua a essere un’opportunità mancata per gli agricoltori regionali.
Un altro punto debole che rallenta la crescita del bio regionale è la mancanza di un’assistenza tecnica qualificata e strutturata. Ciò è vero anche per il convenzionale, ma nel bio la mancanza si sente molto di più, visto che per fare bene il biologico è necessaria molta più competenza e aggiornamento. Anche questo è un gran peccato, perché nell’ultimo anno molti agricoltori convenzionali hanno manifestato interesse per il bio e anche diversi non agricoltori sono attratti dalla professione di agricoltore biologico, ma in entrambi i casi il supporto tecnico sarebbe di grande aiuto ed eviterebbe molti degli errori che, inevitabilmente, si compiono quando si impara un metodo nuovo”.
Anche il biologico si regge sull’export? E, poi, i canali distributivi sono adeguati o ci sono strozzature, monopoli e umiliazione del prezzo franco azienda?
“Il biologico oggi non si regge sull’export, visto che sui circa 4 miliardi di valore del bio italiano circa 1,8 va all’export. Comunque, è una parte importante, così come lo è per gli altri prodotti agroalimentari italiani, soprattutto quelli di qualità. Nel biologico il ‘peso contrattuale’ dei produttori è maggiore rispetto al settore convenzionale, ma comunque chi produce rimane l’anello debole nella formazione del prezzo, a meno che non sia in grado di tenere nelle proprie mani anche i passaggi successivi. Quindi, chi si interfaccia direttamente con gli importatori o con i clienti stranieri ha belle soddisfazioni commerciali; mentre chi per struttura, dimensione e organizzazione deve passare attraverso intermediari, chiaramente si deve un po’ accontentare. In generale, però, il mercato straniero del biologico è molto competitivo, ma tendenzialmente di soddisfazione. Piuttosto, è meno trasparente il biologico che viene importato in Italia, cosa su cui il sistema di controllo vigila in modo continuo”.
Attualmente, la produzione biologica del Friuli quali canali prende e in che proporzione?
“Dipende molto dai prodotti, ma in generale c’è molta vendita diretta. Per alcuni prodotti, come il vino, molto export, pochissima Gdo e abbastanza negozi specializzati. Per riuscire ad affrontare la Gdo, ma anche la ristorazione collettiva, diventa necessaria una piattaforma di distribuzione, senza cui i costi di gestione e di trasporto sono limitanti”.
Il biologico può essere un’opportunità per i giovani imprenditori? Ha tre consigli pratici da dare loro?
“È un’opportunità sicura e concreta. Tre consigli? Studiare e imparare; il miglior investimento del proprio tempo è andare a imparare da qualche agricoltore bio di esperienza. Poi, fare una buona programmazione della gestione aziendale, anche a lungo tempo; i processi agricoli e ambientali danno i loro frutti negli anni e, quindi, diventa ancora più importante. Infine, costruire reti di collaborazione e di scambio di prodotti, di esperienze, di conoscenza; per i friulani ciò può risultare contro natura, ma è la cosa più ecologica da farsi e anche la più avanzata dal punto di vista imprenditoriale”.