Come sta il più grande gruppo industriale del Friuli? È innegabile l’importanza che Danieli ha sull’economia della regione, non solo perché rappresenta il 20% dell’export, ma anche perché si trova a competere in un mercato globale e deve, di necessità virtù, costantemente adeguare e innovare la propria strategia. Dove sta andando la Danieli, quindi, può servire all’intera comunità economica e sociale per capire dove lei stessa può andare. Alla vigilia della presentazione del bilancio, il presidente Gianpietro Benedetti fa un’analisi di quello che sta succedendo dentro e fuori il quartier generale di Buttrio.
Che nuova metamorfosi sta vivendo oggi Danieli? “Il tema è diventato più che mai attuale e importante, in quanto ci siamo convinti che parlare di crescita del mercato dell’acciaio nei prossimi anni è un’utopia. I Paesi sviluppati potranno aumentare il Pil con una media tra zero e 2 per cento. La Cina da parte sua non sarà trainante come eravamo abituati e non può essere sostituita da India o Africa. Siamo entrati in una fase di New Normal che nessuno può dire quanto durerà. Forse 5, forse 10 anni. Quando il mercato cresce tutti si avvantaggiano, quando cala del 30% come oggi i margini si riducono e la competitività e il servizio al cliente devono aumentare”.
E voi come vi state adeguando? “Agiamo su due leve. La prima, più evidente, è quella tecnologica in un’ottica di una domanda che privilegia la ristrutturazione degli impianti siderurgici esistenti piuttosto che la costruzione di nuovi. La seconda, forse ancora più strategica, è di carattere culturale: le persone devono essere ancora più motivate, avere iniziativa, prendere decisioni, porre al centro della loro attività il cliente. Alla fine, così, nell’organizzazione dobbiamo essere più snelli e veloci. La parola d’ordine è lean thinking. E questo è un obiettivo, ne siamo coscienti, che richiede tempo e investimenti”.
Negli ultimi mesi la vostra azienda ha visto un rinnovo di manager. Da ultimo avete ‘pescato’ dalla controllata Abs Alessandro Trivillin, nominandolo co-amministratore delegato del gruppo. Cosa significa tutto questo? “Trivillin sta attuando in Abs il programma Metamorfosi 2 con risultati al momento positivi e che speriamo possa replicare nell’intero gruppo. Più in generale, accanto al tradizionale Cda, abbiamo creato un Manager Board 1 a cui partecipano i responsabili dei diversi settori. Il nostro modello di gestione dell’azienda sta andando nella realizzazione di un team di manager, anziché la classica piramide di manager”.
Sta progettando il dopo Benedetti? “I cambiamenti vanno proprio in questa direzione. Così se a Benedetti viene un’influenza non succede niente all’azienda”.
In base ai risultati del Think Thank 2030 quali obiettivi fattibili si può dare la nostra regione? “Ha evidenziato una squadra, ovvero la comunità regionale, ancora dispersiva e che non riesce a individuare una comune visione di sviluppo. Molti, purtroppo, pensano ancora solo al proprio habitat”.
Come si supera questo impasse? “Forse solo un peggioramento della ricchezza e del benessere potrà sbloccare la situazione e dare forza alle idee maturate in seno al Think Thank”.
Lei quale ritiene prioritaria? “Prioritario e più fattibile è il rapporto tra imprese e mondo della scuola e dell’università. C’è una spinta, in particolare, dei due rettori De Toni e Fermeglia, che però deve superare ancora alcune resistenze”.
Con la scomparsa di Andrea Pittini sembra chiudersi un’era storica per il Friuli. Un’era che dobbiamo rimpiangere? “Ognuno di noi nasce con qualche talento e Pittini ne aveva diversi e li ha saputi sfruttare. È stato indubbiamente aiutato dall’onda economica degli Anni ’50-70: un’epoca ricca di speranza e che rimane irripetibile perché il contesto è completamente diverso. Per questo oggi rimpiangerla non ha senso”.
Cosa è cambiato? “Oggi la gente spera ancora nel cambiamento, ma si aspetta che qualcun altro lo realizzi per loro. E su questo sentimento ci marcia la politica a colpi di promesse che non vengono mantenute”.
Al referendum costituzionale cosa voterà? “Non lo interpreto come un quesito politico, né come un giudizio sull’operato del governo, ma come una necessità di cambiamento. Eventuali incertezze dei cittadini sono sollevate dai sostenitori del no che sono in gran parte gli stessi che hanno contribuito a portare il debito pubblico oltre i 2.200 miliardi di euro, senza investire nella competitività del Paese e indebolendo, invece, il manifatturiero e la produttività del sistema. Se non cambiamo, quindi, lo scenario greco è già stato collaudato, con una perdita di reddito dei suoi cittadini del 50-60 per cento”.
Nell’ultimo bilancio lei e Renzi avete individuato traguardi comuni per il Gruppo e per il Paese. Può tirare le somme a un anno di distanza? “È da dieci anni che a ogni presentazione di bilancio proiettiamo una slide che parla di taglio di spesa pubblica improduttiva, meno burocrazia per le imprese, più investimenti sulla scuola e sul merito, sostegno alle famiglie per invertire un trend di denatalità che ci condanna a una società di vecchi e a un costo del welfare impazzito. Vediamo che Renzi sta affrontando queste tematiche con qualche risultato”.
Può fare di più? “Purtroppo sta trovando sul percorso resistenze non da poco, perché molti stanno bene cosi, alcuni soffrono all’idea di uscire di scena con partiti al 2%, altri vivono di rendita di posizione e di certo non sentono la responsabilità di cambiare per dare un futuro di buon livello al Paese e quindi alle prossime generazioni. Dobbiamo cambiare”.