L’analisi della Ragioneria dello Stato sul sistema pensionistico, aggiornata a giugno, corregge il catastrofismo serpeggiato negli ultimi anni rispetto al ‘tasso di sostituzione’, ovvero il rapporto tra l’ultimo reddito lordo da lavoratore e il primo da pensionato. In effetti, le previsioni ufficiali indicano come un dipendente di azienda privata che andrà in pensione nel 2020 percepirà il 68% dell’ultimo stipendio e se andrà nel 2040 addirittura il 61,9%; peggio ancora andrà al lavoratore autonomo, che tra sei anni, se avrà maturato i requisiti, riceverà una rendita del 52,1% e dieci anni dopo del 46,9 per cento.
Per capire quanto i lavoratori di oggi dovranno prepararsi a stringere la cinghia, però, è necessario guardare al tasso di sostituzione netto, in quanto il confronto tra lo stipendio e la pensione è ‘viziato’ dai contributi previdenziali che pesano sul primo. Emerge, quindi, un quadro meno cupo di quello fino a oggi descritto, seppur non entusiasmante con la generazione che è già in pensione e che beneficia del sistema retributivo nel calcolo del proprio vitalizio.
Infatti, nei prossimi cinquant’anni, il tasso di sostituzione netto per un dipendente del settore privato non scenderà sotto al 71,4%, mentre per il lavoratore autonomo non sarà inferiore al 68,5 per cento. Il vero problema per gli attuali 30-40enni è, semmai, un altro: la continuità contributiva.
Contributi a singhiozzo
Infatti, a penalizzare i futuri pensionati sarà una carriera lavorativa discontinua, fatta di un passaggio da un contratto a tempo determinato all’altro, magari in diversi settori, puntinata di contratti a progetto, qualche voucher e periodi variabili di inattività. Visto che il calcolo della pensione, a quel punto sempre più complesso, sarà fatto sul valore complessivo dei contributi versati, ci potrebbero essere brutte sorprese. Già oggi, per esempio, in Friuli Venezia Giulia un lavoratore nel settore privato tra 30 e 34 anni in media versa contributi per 250 giorni all’anno, mentre uno tra 50 e 54 anni 273.