Che fine ha fatto la Catalogna? Dopo la copertura mediatica prima e durante il referendum indipendentista, il caso catalano – soprattutto le violenze che si sono scatenate per limitare la partecipazione popolare alla consultazione – il tema sembra essere scomparso, o quasi, dal mainstream, specie dopo la vittoria degli indipendentisti alle ultime elezioni. Non ci riferiamo tanto all’esilio di Carles Puigdemont e degli altri esponenti del vecchio governo – sia per il braccio di ferro giudiziario – sia per la sua possibile investitura a capo del nuovo esecutivo – quanto alle già citate violenze subite dalla popolazione, ai motivi profondi che hanno spinto questo popolo a cercare di dar vita a un proprio Stato e all’assordante silenzio dell’Unione europea. Già, perché ridurre il tutto a una rivendicazione economica o a questioni squisitamente legali non rende giustizia alla determinazione e alla compostezza (che noi friulani dovremmo prendere a esempio) con le quali i catalani stanno portando avanti la propria battaglia. Sui nuovi sviluppi a Barcellona abbiamo sentito William Cisilino, esperto di Diritto costituzionale comparato e tutela giuridica delle minoranze, che il primo ottobre dello scorso anno era a Barcellona in qualità di osservatore.
Qual è lo stato dell’arte della crisi catalana?
“Nelle elezioni regionali del 21 dicembre scorso, i partiti indipendentisti – contrariamente a tutte le aspettative – hanno di nuovo vinto, guadagnando la maggioranza assoluta del Parlamento catalano. Ora, queste forze politiche si apprestano a eleggere nuovamente Puigdemont presidente, sebbene lo Stato spagnolo non voglia permettergli di rientrare in Spagna, sotto la minaccia dell’arresto. È una situazione molto complicata che, come dicono i commentatori più autorevoli, andrebbe risolta politicamente e con l’aiuto dell’Europa”.
L’Europa, però, finora si è tenuta in disparte dalla tenzone…
“Sì, ma i problemi si risolvono, non si rimandano. Col voto del 21 dicembre i catalani hanno ribadito una volta per tutte che la loro dignità non è negoziabile. Perché in ballo c’è molto più di una rivendicazione localistica: ‘Per vivere – ha scritto Primo Levi – occorre un’identità, ossia una dignità’. E i catalani stanno cercando di dirci che non sono disposti a perderla in nome del neocentralismo e della globalizzazione incontrollata che, già da tempo, si sono impossessati dell’Europa”.
Tuttavia, molti dicono anche che lo stanno facendo solo per soldi. Conta anche questo fattore?
“La Spagna non ha più soldi da dare (o meglio, da lasciare) alla Catalogna. La battaglia si sta giocando su altri campi. Quello degli Stati nazionali di ottocentesca memoria: macchine desuete, ormai incapaci di stare al passo coi tempi. Ma anche sul campo della crisi economica: gli Stati oggi non sono più in grado di proteggere i diritti dei cittadini da un’economia finanziaria lasciata senza freni, dopo la caduta del comunismo. Un’economia che, anziché creare sviluppo, sta producendo nuove sacche di povertà e nuovi schiavi importati a buon mercato dai Paesi poveri”.
Un nuovo, piccolo Stato può risolvere problemi di così ampia portata?
“Io non lo so. Ma, per la maggioranza relativa dei catalani (48%), la risposta è ‘sì’. Per la maggioranza assoluta (55%), è una soluzione che va sottoposta a referendum (questa è l’attuale percentuale dei partiti pro referendum). Ciò che è certo, è che i catalani sembrano gli unici in Europa a voler tentare delle soluzioni che vadano oltre a qualche catena di Sant’Antonio su Facebook o qualche dibattito televisivo. E dalla fondazione di un loro Stato, con metodi non-violenti vorrebbero partire per la ricostruzione delle fondamenta dell’intera Unione europea”.
Oltre agli indipendentisti, alle elezioni hanno trionfato anche gli unionisti di Ciudadans, che è ora il primo partito. Che idea si è fatto?
“Ciudadans è una sorta di destra di plastica 2.0, neocentralista e neoliberista, che ha soffiato i voti al Partito popolare e al Partito socialista. Gli elettori di Ciudadans si concentrano soprattutto nelle grandi città e rappresentano probabilmente in buona parte un ‘tipo-umano’ cittadino, sradicato, individualista, amante dello status quo, fin tanto che quello status quo non lo sfiora (e allora sono dolori). La sua leader, Ines Arrimadas, è una rappresentazione visiva di tale concetto: giovane, appariscente (perfetta per una pubblicità televisiva), inconsistente, insapore e aggressiva”.
E ora, come andrà a finire?
“Fra qualche giorno, Puigdemont, con il sostegno del nuovo presidente del Parlamento catalano Roger Torrent, tenterà di essere investito presidente, su delega o a distanza da Bruxelles, dove è in esilio. Meno probabile che torni in patria per l’investitura. In entrambi i casi, lo Stato spagnolo farà di tutto per impedire l’elezione del presidente democraticamente eletto dai catalani. Insomma: hanno manganellato, hanno imprigionato, hanno commissariato, hanno mosso banche e agenzie di rating. Presto, impediranno con la forza una investitura democratica. L’Europa starà ancora a guardare? Mi auguro di no”.