I dati sono chiari: nel corso del tempo, l’affluenza alle urne è andata via via scemando, fino ad arrivare a situazioni limite (ultima in ordine di tempo, le elezioni per il Municipio romano di Ostia dove a votare è stato un avente diritto su tre) nelle quali sono più i ‘disertori’ dei partecipanti. Senza contare la fiducia dei cittadini – compresi i friulani – nei partiti, scesa a un livello talmente basso che pare di poter dire come nemmeno i politici credono a se stessi. Sul tema abbiamo sentito il politologo Paolo Feltrin, docente di Scienze politiche e sociali all’Università di Trieste.
Professore, come siamo giunti a questo punto?
“Premettiamo che non c’è scritto da nessuna parte che gli elettori debbano andare a votare. Il voto singolo conta così poco che possiamo concludere che è razionale disertare le urne. E’ un po’ come per la lotteria: le probabilità di vincere il primo premio sono così basse che non conviene acquistare il biglietto. Anzi, dobbiamo chiederci come mai ancora tante persone si recano al seggio”.
Allora, cosa spinge un cittadino ad andare a votare?
“Il voto è una manifestazione d’identità. Ci va chi apprezza più la democrazia degli autoritarismi. Per questo, le elezioni hanno toccato la massima partecipazione nell’immediato dopoguerra per poi scemare. In qualche misura, poi, i momenti critici spingono le persone a votare: possiamo portare a esempio le elezioni del 1948 (scelta tra comunismo e democrazia), del 1976 (conta dei voti tra Pci e Dc) e il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016. Inoltre, le elezioni sono più partecipate nei piccoli Stati (è un modo di affermare l’appartenenza alla propria nazione) e quando i partiti sono più radicati. Dopo il 2000 i partiti sono spariti e l’autoritarismo non è più alle porte”.
Come si può invertire la tendenza?
“Ciò succederà se i cittadini percepiranno che le consultazioni sono critiche (per esempio se dal voto dipende l’appartenenza all’Europa), se i partiti riattiveranno circuiti più solidi di propaganda e se le persone apprezzeranno di più l’appartenenza a una democrazia. Invitare semplicemente la gente a votare serve a poco”.
Quali partiti si avvantaggiano di più dall’astensione?
“Dipende dai tipi di astensione. Se si tratta di un’astensione tecnica (che coinvolge chi è temporaneamente all’estero per lavoro e gli anziani che non possono recarsi al seggio) o di una marginale (persone poco istruite che si interessano poco di politica, percepita come un qualcosa di sporco) a perderci sono soprattutto le formazioni moderate e di centro. Un tempo queste rappresentavano le principali motivazioni. Oggi, però, è cresciuta un’altra forma di astensione. Mi riferisco alla protesta, che è una vera e propria posizione politica: ‘siete tutti uguali, dei ladroni, conosco bene le cose e proprio per ciò non vi do il mio voto’. In questo caso, a essere colpiti sono stati i partiti di sinistra, che non hanno saputo dare risposte alla crisi, causando la delusione dell’elettorato. La destra, che è una componente minore dello scenario politico, ne soffre meno”.
E i nuovi movimenti politici che si sono affacciati in Europa?
“I partiti radicali o populisti possono riportare le persone alle urne. Penso allo scontro in Francia tra Le Pen e Macron, o alle ultime elezioni in Germania. Tuttavia, almeno dal punto di vista delle motivazioni, non trovo molta differenza tra il votare queste formazioni e l’astensione”.
Un tempo si pensava che l’astensione colpisse le consultazioni politiche, ma non le amministrative. Non è più così. Perché?
“E’ vero che l’amministratore locale, specie il sindaco, è più importante perché è più vicino all’elettore. Tuttavia, in questi anni le amministrazioni locali non hanno più saputo dare risposte a chi si rivolgeva loro per mancanza di risorse. Se, quando si rivolgono al sindaco per i propri problemi, i cittadini scoprono che quella figura è diventata impotente e non riesce a dare rispste, l’elezione successiva stanno a casa”.