Nel 2011 hanno pubblicato un album, ‘Wow’, entrato di diritto tra i lavori più influenti del decennio. Per andare ancora oltre, i Verdena – da oltre 15 anni una delle band più amate del panorama rock underground nazionale – sono usciti con il ‘Volume 1’ di un lavoro ancora più complesso e stratificato, colmo di citazioni ma allo stesso tempo non catalogabile: ‘Endkadenz’, che sabato 28 presenteranno al Deposito di Pordenone in una data della ‘seconda tranche’ di live.
Un album ‘a puntate’ è una novità per l’Italia…
“Volevamo un doppio lunghissimo, da due ore – spiega il cantante e chitarrista Alberto Ferrari, che col fratello Luca alla batteria e la bassista Roberta Sammarelli forma un sodalizio unico – ma la casa discografica ha detto di no. Col senno di poi, forse hanno ragione loro: è troppo lungo e mi dicono che ci vogliono più ascolti. Sicuramente i due volumi sono stati divisi equamente, quasi con una formula matematica”.
Una conferma di quello che molti sostengono: ‘i Verdena non sono un gruppo come gli altri’?
“Non so, sicuramente se fossi giovane io li ascolterei, perché c’è una differenza tra noi e le altre band, per esempio nell’uso della lingua. In giro si sente poca roba strana come la nostra, anche se in Italia ci sono ancora tante cose fighe nell’underground: non serve andare ai talent”.
Ha ancora senso parlare di confine tra underground e mainstream?
“Ha ancora senso parlare di musica? E’ finita un’epoca: noi continuiamo a fare musica come un tempo, ma non so per chi. Se non sei Fedez, oggi, chi ti ascolta? Ho due figli molto piccoli, ma seguono già le mode, anche se io insisto con i Beatles: la qualità non è in cima alle esigenze…”.
Però voi continuate a lavorare tantissimo in studio, come hanno fatto i ‘grandi’, quelli veri. Vale la pena?
“Se parliamo del pubblico, forse no, ma per me è sì: io cerco soddisfazione ed entusiasmo nella musica e la registrazione mi fa sentire come un invasato”.
Il fatto di vivere in provincia (quella di Bergamo, ndr) vi ha sempre caratterizzato: l’isolamento è un punto di forza?
“Io sono isolato da sempre, per abitudine e per storia. I miei genitori erano separati, quindi ho cambiato tantissime case: alla fine il ‘pollaio’, lo studio dove suoniamo, è stato il primo posto in cui ci siamo fermati. Io mi isolerei anche a Milano: essere fuori dalle mode mi piace”.
Siete figli dei ’90: c’è un altro decennio in cui avreste voluto vivere?
“Il romanticismo è bello, ma bisogna anche sapersi mettere in gioco nel presente. Sì, il mio riferimento sono stati i ’90, quando ogni cosa che usciva era fantastica, si compravano ancora i dischi, il testosterone andava a mille e noi siamo stati capaci di prendere l’ultimo treno verso una specie di successo di pubblico. Ma tutto cambia: magari i miei figli un giorno diranno quanto era figo il 2020!”