Quando la propria passione si tramuta in lavoro la soddisfazione nel cimentarsi, nello studiare, nell’aggiornarsi viene moltiplicata a numeri esponenziali. Così capita per l’archivistica, materia a molti astrusa, che viene relegata a un’immagine costituita da polvere e in stanze buie alla presenza di un canuto e tenue lume di candela e con la compagnia di ratti e sorci di vario genere. Ma l’idea così banale e scevra da emozioni ed esperienze viene ribaltata dal racconto carico di entusiasmo di un giovane archivista.
Vanni Feresin, goriziano classe 1980, dal 2007 è archivista professionista e si occupa da numerosi anni principalmente di archivi ecclesiastici. Attualmente, poi, segue la Scuola di archivistica vaticana a Roma presso l’Archivio Segreto Vaticano. Appassionato alla materia fin da giovanissimo, attirato non solo dal suo amore per la carta, per la scrittura e la storia del territorio, ma anche dalle vicende locali.
“Il bello dell’archivistica – confessa scherzando Feresin – non è soltanto le pantegane o la polvere ma che cosa dicono le carte. Dai messaggi si può capire come lavoravano alcune istituzioni, come si viveva, cosa si pensava”.
Entrare, cioè, nel mondo di allora. Dalle segnature, vale a dire dai messaggi nascosti scritti sulle carte, si ricostruisce un archivio e da un ammasso informe si raggiunge, mediante l’utilizzo del ‘metodo storico’, la completezza finale nell’inventario.
“Un po’ come la fotografia – spiega il Feresin – più pixel ci sono più l’immagine è nitida. Le carte sono come pixel”.
Tra i pozzi più interessanti per ricostruire vita e costumi di una comunità ci sono gli archivi parrocchiali, nei quali si pensa spesso di poter pescare solamente preghiere o summae teologiche ma che in realtà custodiscono importanti tracce anagrafiche, obbligatori dalla fine del Concilio di Trento, ovvero dal 1570, e la parte amministrativa.
“Da qui si comprende spesso l’evoluzione della società” aggiunge.
Tra le più grandi soddisfazioni lavorative la riscoperta dell’archivio parrocchiale di Aquileia, creduto scomparso e, invece, recuperato “cercando tra cassapanche, mobili e armadi” le carte. Oppure il ritrovamento del terzo libro delle Cronache di San Salvatore a Gradisca che racconta le vicende gradiscane dal 1748 al 1759. Oppure, tra i più antichi dell’Arcidiocesi, il libro dei battesimi di Medea, iniziato nel 1579.
“La sensibilità è qualcosa arrivata troppo tardi”, conclude Feresin, citando il tragico esempio di una parrocchia tergestina dove il parroco negli Anni ’80 del secolo scorso aveva gettato nella pattumiera i registri del Cinquecento e Seicento, lanciando la memoria nel corvino vuoto dell’oblio.