Lui è di poche parole (ma quelle che usa fanno effetto). Preferisce affidare le sue emozioni alla pittura, da oltre 50 anni. Ottavio Sgubin, nato ad Aquileia nel 1940, originario di Fiumicello (la sorella Marta è stata la tata dei Kennedy e degli Onassis), ma pordenonese di adozione da molti anni, nella vita è riuscito a realizzare il suo sogno: fare il pittore. I suoi quadri sono finiti in tutta Italia, nelle più importanti gallerie, nelle principali stazioni ferroviarie del Paese (Torino, Milano, Genova, Roma), in comunità sociali e nelle chiese.
E’ con il ciclo delle opere sui barboni, esposte da ultimo nella Basilica vaticana di Sant’Eustachio a Roma, che ha saputo rendere universale la sua arte, mandando un messaggio di fratellanza. “So fare bene solo quello, dipingere – scherza Sgubin -, faccio fatica perfino a cambiare una lampadina”. Ma con colori e tele, quello che è stato definito il ‘pittore degli ultimi’ si esprime anche troppo bene. “In fondo, se sono diventato un artista, è merito di Zanussi”.
Come? Cosa centra la più grande fabbrica di elettrodomestici d’Europa con la sua pittura?
“Tutto risale agli Anni Sessanta. Avevo vent’anni e da poco dipingevo. Ero un ragazzo pieno di speranze e illusioni. Riuscire nell’arte era molto difficile, soprattutto per chi non aveva possibilità economiche. Io ero uno di quelli. Nel ’69 partecipai a un concorso di pittura riservato agli under 30 a ‘Casa Zanussi’, dedicato al fondatore Antonio, nella struttura culturale che il figlio Lino aveva fatto nascere. Presentai tre opere, che raffiguravano i palazzi della Pordenone vecchia, e vennero tutte selezionate, al contrario degli altri, che parteciparono con un solo quadro”.
Risultato?
“Arrivai primo. E in giuria c’erano critici importanti, come Fulvio Monai, Angelo Giannelli, Giancarlo Pauletto e Giulio Montenero. Fu quel risultato a darmi la spinta a proseguire nel mio lavoro e a credere di poter diventare un vero pittore. Grazie a Lino Zanussi, un mecenate come oggi quasi non ne esistono più, ho potuto esprimermi artisticamente. Ma l’aiuto me l’ha dato anche da vivo”.
Quando ha vinto il concorso era morto da poco. L’ha conosciuto?
“Sì. Un giorno stavo dipingendo col cavalletto la facciata di Villa Ronche a Fontanfaredda, la sua casa. Mi è passato a fianco, ha osservato il lavoro e poi ha detto al suo collaboratore: ‘Quando il maestro avrà finito, compri l’opera’. Per me, che ero un ragazzino agli esordi, è stata una soddisfazione immensa”.
Un incoraggiamento speciale…
“Lino Zanussi aveva anzitutto questa dote: saper credere e investire sulle persone, sulle idee innovative, facendo della propria esistenza un progetto in continua evoluzione. L’impero Zanussi in fondo nasce da un desiderio, da una passione, dalla perseveranza e fiducia nella trasformazione, nel riuscire cioè a concretizzare un’intuizione proiettandosi sempre verso il futuro. Questo è il vero spirito dell’imprenditoria: realizzare insieme un’idea e goderne collettivamente i risultati”.
Che consiglio si sente di dare ai giovani di oggi, che aspirino all’arte o meno?
“Dico loro di crederci sempre, impegnarsi e mai abbandonare i propri sogni. Io ci sono riuscito, ma anche Lino Zanussi, per tornare a lui, in fondo era partito dal nulla. E questa deve essere sempre una grande lezione che dobbiamo tenere a mente”.