La ‘gola’ può dare risposte anche alla ‘fame’. È questo il giusto legame che dovrebbe ‘alimentare’ l’Expo di Milano, secondo lo chef friulano stellato Emanuele Scarello. Infatti, l’evento di portata mondiale non deve rappresentare una vetrina commerciale per produzioni agroalimentari o eccellenze enogastronomiche, ma deve dare risposte al quesito strategico insito nel titolo: come riuscirà il mondo a sfamare oggi 7 miliardi e tra appena qualche decennio 9 miliardi di persone?
In tale contesto, l’alta cucina non è affatto antitetica rispetto alle esigenze alimentari della popolazione mondiale. Non è un dito nell’occhio alla fame o una nicchia alla portata soltanto dei ricchi. Bensì, svolge un ruolo economico importante, soprattutto in un contesto come quello friulano in grado di esprimere un valore aggiunto competitivo, seppur ancora non adeguatamente valorizzato. Soprattutto, può elaborare nuove frontiere dell’alimentazione che, poi, vengono trasmesse all’agroindustria e, lungo la filiera, fino all’agricoltura di base per soddisfare emergenti richieste del grande pubblico di consumatori, europei, occidentali e mondiali.
Ed è proprio in questa direzione che da alcuni anni il ristorante di famiglia, ‘Agli Amici’ di Godia, è stato ripensato diventando non solo meta per gourmet di tutta Italia e anche dall’estero, ma soprattutto ‘laboratorio’ per individuare le nuove frontiere dell’alimentazione.
Quanto sono importanti i fornitori di ‘materia prima’ per la cucina di un ristorante stellato?
“Sono fondamentali, perché noi siamo la tappa finale di una filiera molto lunga. Per poterci presentare ai nostri ospiti dobbiamo avere, alle spalle, produttori che condividono con noi i valori etici del cibo. Come posso comprare un branzino a 4,50 euro, allevato a migliaia di chilometri non si sa con quale mangime, e poi proporlo in menu? Per fare una grande cucina è necessario pretendere il massimo”.
Come individuate, quindi, i fornitori?
“Devono essere selezionati, ovvero garantire qualità del prodotto, continuità dell’offerta e serietà professionale. Odio, per esempio, chi lavora per mille strade, segue mille affari: un professionista serio deve avere una sola strada, la sua”.
Chi è troppo piccolo e disorganizzato come fa?
“Deve farsi un ‘nome’. La ristorazione è come l’enologia, in cui un vino è grande solo se raggiunge l’eccellenza in una verticale di più annate. I nostri fornitori sono stati selezionati nel corso di molti anni e, per noi, sono ormai una garanzia. Chi, invece, è alla ricerca continua di nuovi fornitori o non li paga o vuole giocare a ribasso sul prezzo e, di conseguenza, anche sulla qualità”.
L’offerta locale è adeguata?
“La qualità prodotta in Friuli è molto alta e raggiunge, in molti casi, le vette dell’eccellenza che colleghi di altre regioni faticano a trovare. Il rovescio della medaglia, invece, è la costanza: un piccolo caseificio mi fornisce una ricotta fantastica, ma conta su quattro vacche da latte che cura con la massima attenzione, però può capitare qualche giorno che non ha prodotto da portarmi. Quindi, se vuoi il massimo devi anche accettare il rischio di trovarti senza e, a quel punto, entra in gioco l’abilità del cuoco, che deve sempre essere in grado di variare e giocare con la stagionalità degli ingredienti. In sostanza, deve saper interpretare cosa ha a disposizione”.
In Friuli funziona l’integrazione tra cibo e turismo?
“Possiamo dire che il turismo è la prima industria del nostro Paese e, in questo, l’intera filiera alimentare fino alla ristorazione gioca un ruolo importantissimo, perché la cucina racconta la storia di un popolo”.
Cosa vorrebbe che restasse dell’Expo di Milano?
“Dopo questo momento di riflessione, vorrei che si comprendesse di più l’importanza del cibo e la differenza tra ‘fame’ e ‘gola’. L’Expo intende dare risposte alla prima questione, ed è questo il vero tema dell’esposizione universale, anche se sembra già prevalere la seconda”.
Per il sistema alimentare friulano, quindi, cosa può rappresentare l’Expo?
“Dal contadino allo chef, dobbiamo chiederci: cosa faccio, perché lo faccio e cosa voglio raccontare? Solo così possiamo distinguere l’emozione vera dalla tecno-emozione, ovvero la differenza tra un’insalata idroponica e una polenta cotta sullo spolert”.
Quanto è lontana l’alta cucina dagli stili alimentari quotidiani della popolazione?
“È più vicina di quanto si possa pensare. Noi, per esempio, facciamo ricerca e sviluppo e, accanto alla cucina, c’è un vero e proprio laboratorio, e assieme le due strutture impegnano dieci persone. Dall’idea di una ricetta facciamo analisi sugli ingredienti, sulla cottura, sulla conservazione e, poi, attraverso software specifici compiamo anche l’analisi del costo. Tutta questa attività dell’alta cucina, poi, si diffonde diventando, nel giro di qualche anno, patrimonio non solo dell’industria alimentare, ma anche della cucina di casa. Quello che oggi noi sperimentiamo, tra qualche tempo sarà servito anche nel chiosco della spiaggia. Faccio qualche esempio: la cottura a bassa temperatura, dopo essere stata sviluppata nelle cucine dei ristoranti stellati, è oggi diffusa anche nei prodotti presenti sui banconi dei supermercati”.
Qual è la prossima frontiera, quindi?
“Dopo la cottura a bassa temperatura è venuto il tempo dei germogli. Noi, qui a Godia, stiamo però già sviluppando un nuovo settore, quello delle radici e tuberi. Stiamo individuando, così, varietà che hanno sapori eccezionali, eppure sono prodotti poco diffusi nonostante i costi di produzione siano bassissimi. Credo che possano dare una risposta valida oggi alla gola e domani alla fame”.