I lavori del Consiglio regionale, convocato per la seduta di diritto del primo giorno di febbraio prevista dallo Statuto regionale, si è aperta con la celebrazione del Giorno del Ricordo con l’intervento del presidente Piero Mauro Zanin che ha richiamato il voto parlamentare a larghissima maggioranza, con il quale – approvando 15 anni fa la legge n.92 sul Giorno del Ricordo – la Repubblica Italiana non ha voluto dimenticare la più grande tragedia avvenuta nella storia recente del nostro Paese. “Non dobbiamo dimenticare – ha esordito Zanin – per poter affrontare in modo condiviso le cause e le responsabilità di quanto è accaduto, perché solo ricordando possiamo superare tutte le barriere di diversità e discriminazione. Oggi il Consiglio regionale ricorda, anche con l’orazione del prof. Raoul Pupo e la testimonianza di Erminia Dionis Bernobi, che ringrazio per essere qui, le vittime delle foibe, l’esodo giuliano-dalmata e le vicende del confine orientale”.
“Lo facciamo per dovere nei confronti dei superstiti, dei famigliari delle vittime, delle Associazioni che coltivano la memoria di quell’eccidio che decenni di oblio avevano quasi cancellato. Fu l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che nel 2007 ruppe, con coraggio, la cortina del silenzio dichiarando che “Dobbiamo assumerci la responsabilità di aver negato la verità per pregiudizi ideologici, perché la tragedia di migliaia di italiani imprigionati, uccisi, gettati nelle foibe aveva assunto i sinistri contorni di una pulizia etnica”.
“Dobbiamo riconoscere che per troppo tempo la devastante tragedia delle foibe e dell’esodo dall’Istria, Fiume e Dalmazia è stata nascosta all’Italia. Il Giorno del Ricordo ha assunto il significato di una memoria ritrovata e condivisa. Abbiamo la possibilità di rileggere un capitolo della storia recente, comune alle Repubbliche di Slovenia e Croazia, oggi parte dell’Unione Europea, dove nessuna identità deve essere sacrificata e nessuna discriminazione può essere giustificata”.
“Nel 1945, mentre l’Italia provava a riprendersi dalla catastrofe della guerra e della sconfitta militare, le popolazioni di Trieste, dell’Istria, del Quarnaro e della Dalmazia, occupate dai partigiani jugoslavi, affrontavano la terribile prova delle torture, delle deportazioni e delle uccisioni senza distinzione fra colpevoli e innocenti, tra fascisti e antifascisti. Il moto di odio colpì per primi coloro che in qualsiasi modo rappresentavano l’Autorità italiana: Sindaci, dipendenti comunali, medici, intellettuali, parroci”.
“Senza processo, o dopo un processo farsa, i prigionieri venivano torturati e molto spesso gettati nelle foibe, violati nella loro dignità e privati della loro identità. Altri italiani, negli stessi frangenti, erano costretti ad abbandonare la propria terra, i beni, parenti ed amici per andare incontro a un futuro incerto in Italia e all’estero. Circa 350.000 esuli furono costretti ad abbandonare le case dove erano nati, contribuendo a svuotare le città e le campagne dell’Istria. L’ultima fu Pola, dopo che nell’estate del 1946, le esplosioni sulla spiaggia di Vergarolla, uccisero decine e decine di italiani e con essi la speranza che molti ancora coltivavano di poter restare”.
“Gli esuli vissero il duplice dramma dell’esodo e dell’indifferenza che incontravano in Italia, dipinti come fascisti soltanto perché fuggivano da un regime comunista che vedeva nell’esilio la giusta punizione. Sui protagonisti di quella tragedia si abbatté anche il vasto debito di guerra dell’Italia, fatto ricadere sulle case, le industrie, i negozi, i risparmi dei giuliani-dalmati che non vennero indennizzati. Se questi fatti non possono essere dimenticati, dobbiamo capire come siano potuti accadere. L’Italia fascista, che aveva portato la guerra nei Balcani, aveva provocato forti contrapposizioni con le popolazioni jugoslave e, alla fine del conflitto, le potenze vincitrici occidentali ritenevano la Jugoslavia di Tito strategica perchè si interponeva fra l’Occidente e il Blocco comunista. Se non possiamo dimenticare i patimenti, fino alla morte, subiti da italiani immuni da ogni colpa, sappiamo di dover coltivare la memoria delle sofferenze inflitte alle Comunità Slovena e Croata negli anni del fascismo”.
“La storia degli ultimi 30 anni ha posto, seppur lentamente, le basi per ricucire le lacerazioni tra Paesi che concorrono al processo di integrazione europea e in questo contesto la nostra Regione può ricoprire un ruolo importante e svolgere una funzione determinante nel superare le barriere politiche, ideologiche ed economiche, nel comune contesto europeo, fondato sul rispetto delle diversità che ci consente di operare per favorire la pace, la crescita, lo sviluppo, la cooperazione. Il ricordo è l’unica via per la riconciliazione. Non si supera il passato con la rimozione, ma traendo da esso insegnamento. La grande opportunità che abbiamo di fronte deve tener conto della presenza di oltre 50 Comunità di italiani che risiedono in Istria, Fiume e Dalmazia e continuano a tener viva la nostra cultura, la nostra lingua e la civiltà millenaria di quelle terre. La sapremo cogliere – ha concluso Zanin – traendo esempio dalla dignità dimostrata dai protagonisti dell’esodo di 70 anni fa che hanno subìto la barbarie dello sradicamento totale, eppure non hanno odiato”.
L’esule Erminia Dionis Bernobi, ha raccontato all’Aula la sua vicenda di italiana nata nel 1931 a Santa Domenica di Visinada d’Istria, nella provincia di Pola, e dal 1946 residente a Trieste, “città che mi ha accolto e che amo con tutto il mio cuore”, ha detto, dove ha imparato il mestiere di sarta. “Il mio arrivo a Trieste è stato a dir poco drammatico, dopo una fuga rocambolesca dal mio paese natale, di notte attraverso i boschi, perchè la mia storia si intreccia alla storia con la S maiuscola. La mia terra d’Istria infatti in quegli anni ha vissuto una tirannia terribile sotto i partigiani slavocomunisti di Tito in cui dominavano ingiustizie, prevaricazioni, soprusi e violenze di ogni tipo soprattutto ai danni degli italiani. Rimasta orfana del padre all’età di 6 anni, con tre sorelle e mamma impiegata come bidella, imparai presto a essere utile in casa e da adolescente cercai di dare un piccolo contributo al bilancio familiare affiancando in bottega, dopo la scuola, il sarto da uomo del paese”.
“Fu proprio là che venni a sentire, per caso dalla voce di un cliente per sua ammissione del suo coinvolgimento ai fatti delittuosi che avevano portato alla morte della compaesana Norma Cossetto nel 1943. Sconvolta per le terribili parole udite e memore della tragedia che aveva colpito la famiglia amica e vicina di casa dei Cossetto, ebbi una reazione indignata insultando il malfattore e correndo via dal negozio per trovare rifugio a casa mia. La notte stessa, era il 24 agosto del ’46, su consiglio del sarto che aveva assistito impotente all mia reazione di rabbia, fui accompagnata lontano da casa, al sicuro da eventuali minacce, ritorsioni e vendette nei miei confronti e verso la mia famiglia”.
“Lasciai con tanta paura e il cuore a pezzi il mio amatissimo paese ma soprattutto la mia adorata mamma (che mi avrebbe raggiunta a Trieste sei anni dopo) che, tra le lacrime, mi fece giurare il silenzio sulla vicenda. Solo tantissimi anni dopo – ben 25 – ne parlai per la prima volta, a fatica, e da quel momento non ho più smesso di raccontare la mia testimonianza su uno degli episodi più tragici che hanno insanguinato l’Istria sotto il dominio jugoslavo: il martirio di Norma Cossetto, trucidata barbaramente e infoibata per non aver tradito i suoi principi e valori ed essere rimasta fedele alla sua identità italiana”.
Erminia Dionis, oltre a ricostruire dettagliamente la fuga e i sentimenti di paura vissuti, ha anche raccontato le difficoltà incontrate all’inizio nella nuova vita a Trieste presso una zia, per la sua condizione di apolide per oltre due anni e, alla fine, chiedendosi come sia possibile oggi che qualcuno possa negare le foibe, ha sottolineato l’importanza che a scuola si insegni correttamente la verità storica. “Aver inaugurato questa stagione delle testimonianze – ha concluso Zanin consegnando a Erminia Dionis Bernobi il sigillo del Consiglio regionale – ci aiuterà ad assumerci fin in fondo la responsabilità della nostra storia storia, sia di quella positiva che di quella negativa. Perchè anche grazie al contributo di questi testimoni la comunità regionale sia cosciente del lavoro che ancora dobbiamo compiere”.
Infine l’Aula ha osservato un minuto di silenzio.