In Italia abbiamo Vasco, che fa concerti-evento da decine di migliaia di spettatori e riunisce un pubblico eterogeneo. Negli Usa (e nel resto del mondo) c’è Bruce Springsteen, esempio unico di stakanovismo rock (ma non solo), fatto anche di show torrenziali, ciascuno un evento a modo suo, in grado di attirare un pubblico di età, estrazione e ‘preparazione musicale’ diversa. Alla versione italiana del Boss dal vivo ha dedicato un libro il monfalconese Daniele Benvenuti, autore quest’anno già dell’enciclopedico CantAttori e, nel 2012, del fondamentale All the way home – Tutte le strade portano a casa’ (Bruce Springsteen in the italian land), primo studio sui legami tra il rocker e il nostro Paese. Growin’ up (siamo cresciuti insieme) è la versione ‘rinnovata’ di quel volume, uscito in origine per un editore di Trieste e da giovedì 27 per Arcana: 520 pagine con tutto, ma proprio tutto sui 47 concerti italiani del Boss.
“Io – precisa Daniele – ne ho analizzati 50, comprendendo le date di Monaco, Lione e Zurigo del 1981, vista la partecipazione in massa degli italiani. Il titolo non si riferisce solo al brano del suo primo album, ma alla frase che disse a San Siro nel 2003, ‘siamo cresciuti insieme’, riferendosi alla prima data italiana nel 1985”.
E’ proprio vero che ogni suo concerto è diverso dall’altro?
“Assolutamente: io propongo tutte le scalette approfondite, direttamente dai miei appunti, comprese pause, presentazioni, cover e autori. Nel retro-copertina ci sono tutti i braccialetti del pit, la parte più vicina all’artista: da quando esiste, sono sempre stato lì e ho visto il passaggio da spazio per Vip e amici a luogo atteso con code inenarrabili, passando pure per una specie di lotteria!”.
Il rock spesso permette di analizzare la società: succede anche col Boss?
“L’analisi sociologica nel libro è rimasta per volere dell’editore, anche se non si parla dei fan club e di certi, diciamo così, eccessi. Oggi una rockstar ha meno possibilità di far crescere il suo pubblico, perché tanti vanno al concerto come a un rito religioso, per adorare, e con l’intenzione di vivere da protagonisti una specie di ruolo nello spettacolo. Il suo pubblico è cambiato in maniera radicale: ora è più ‘generalista’ che in passato e questo ha un influsso anche sui brani proposti”.
Per esempio?
“Dancing in the dark, che reputo un pezzo secondario, non può mancare, purtroppo, perché è diventato parte integrante dello show, che comunque dipende anche dalle location”.
In regione, nei tre concerti visti finora, ci è andata bene!
“Quando sceglie piazze apparentemente più defilate ha meno pressioni e saltano fuori show da grande artista. A Trieste nel 2012 ha riproposto Rosalita dopo anni e ha ospitato Elliot Murphy, a Udine nel 2009 ha rifatto Streets of fire, suonata pochissimo, ed è stato l’ultimo concerto italiano di Clarence Clemons. A Villa Manin la scaletta era più in linea con il particolare tour, quello delle Seeger Sessions. Nella nostra regione poi è partita proprio ai suoi show una maggior attenzione per il pubblico, fatta di bottigliette d’acqua e nebulizzatori nelle giornate torride”.
Riusciremo a sentire qui il nuovo album ‘Western stars’ dal vivo?
“Fino al 2020 non ci saranno live, non di questo album, ma parliamo del suo lavoro migliore dal 2000 a oggi, esclusi Seeger Sessions e Devils & Dust. E’ l’unico nel quale non cerca di fare la rockstar autocelebrativa e si presenta così com’è: un autore di una certa età, non un juke box”.