Correva l’anno 1050 e l’attuale città di Taraz, odierno Kazakistan, era sotto il dominio Karakhanide. L’emiro, tal Karakhan, era in missione politica a Samarcanda, quando il suo sguardo fu rapito dallo splendore irradiato da una ragazza ferma tra la folla assiepata a bordo strada per assistere al suo passaggio. Era Aisha, figlia del Signore di Samarcanda, una perla di rara bellezza. I due si innamorarono perdutamente ma il padre di lei non volle sentire ragioni. “Non avrai mai mia figlia in sposa”. La madre di Aisha, che voleva la felicità della figlia dopo averla vista con l’animo tormentato per lungo tempo, l’aiutò a fuggire vestita da uomo in sella al miglior destriero in compagnia della fida bambinaia, Babadzha Khatun. Aisha, giunta sulle sponde del fiume Tasaryk, si fece un lungo bagno e indossò l’abito da sposa fatto con le sue mani durante i periodi di attesa e proprio mentre stava per indossare il tradizionale saukele, un copricapo elaborato indossato dalla sposa il giorno del matrimonio, un serpente velenoso la morse.
La bambinaia galoppò per raggiungere Karakhan e avvisarlo della tragedia. L’uomo, scosso, raggruppò guardie e alcuni uomini religiosi e si fiondò dall’amata. Poco prima che spirasse l’ultimo respiro riuscì a sposarla e promise di non sposare né amare nessun’altra donna. Karakhan, che visse regnando con saggezza e lungimiranza fino all’età di cent’anni, volle che uno splendido mausoleo venisse costruito lì dove Aisha aveva esalato l’ultimo respiro. Leggenda kazaka, e per di più con molteplici varianti. Il mausoleo, invece, era realtà, una gemma di ispirazione Samanide rivestita di mattonelle di terracotta decorate con motivi geometrici. Un cubo di grazia, sormontato da una struttura conica delicata, eretto per colpire lo sguardo del visitatore. Un tentativo riuscito di imitare, a livello architettonico, l’avvenenza di Aisha.
Tre paia di scarpe lì lì per disfarsi, giacevano sotto l’ingresso ad arco. All’interno, un uomo camuffato sotto uno strato di stracci, recitava una nenia ipnotica. Due donne tacevano con il capo chino e gli occhi chiusi, a un passo dal manto verde con ricami scintillanti che ricopriva la tomba di Aisha. Le sillabe uscivano dalla bocca dell’uomo, rimbalzavano tra le pareti, si imprimevano nell’animo delle due pie donne e uscivano dove ad attenderle c’era un vento spaventoso. L’atmosfera era potente. Le raffiche scuotevano i pioppi come fossero fili di seta e producevano un ululato che pareva un requiem.
Il baccano di una scolaresca ruppe l’idillio. Avevano tra i tredici e i diciannove anni, un mosaico di etnie che valeva più di mille trattati di antropologia. Kazaki, russi, azeri, tatari, uzbeki, ucraini. Mentre le ragazzine sfioravano le mura esterne del mausoleo sognando l’amore, tre ragazzotti attaccarono bottone. Un russo: faccia rotonda e passione per le sigarette. Un uzbeko: magro come un chiodo, ossessionato dal mondo del commercio. Un azero: chioma corvina, sopracciglia spesse e folte, pelle butterata, fare da guascone. Confessarono subito che “la scimmia”, questo il soprannome dell’azero, aveva una relazione con la professoressa di inglese che non esitarono ad indicarmi. L’azero sventolò profilattici e si impegnò in un’imitazione delle sue performance che lo vide usare mani, dita, lingua e, come se non bastasse, un movimento di bacino, suscitando le risate eccitate dei compari. Solo la voce dell’uomo all’interno del mausoleo, che d’un tratto aveva ripreso vigore, sembrò fermare il furore dell’azero che volle allontanarsi. La professoressa, una donna di mezza età che pareva subire particolarmente l’ingiuria degli anni, capì che era l’oggetto della conversazione e, passandoci vicino, lo apostrofò con fare severo, “Scimmia comportati bene”. La prof recitava, in malo modo, per salvarsi la faccia. Il suo finto disprezzo nei confronti dell’alunno-amante, non era credibile. Altra cosa l’amore al tempo dei Karakhanidi.
*Paolo Zambon è l’autore di due libri editi da Alpine Studio “Inseguendo le ombre dei colibrì’ e “Viaggio in Oman”