Venne l’ora di mettere qualche cosa sotto i denti, un’insegna che spiccava tra un gruppetto di edifici in precario stato piantati in mezzo al nulla, era il segnale che i nostri stomaci stavano attendendo.
L’insegna cigolava sotto le frustate delle folate provenienti da oriente, cartacce e alcune bottiglie di plastica seguivano il ritmo angosciante dei cigolii. Non un’anima viva. Gettando lo sguardo verso nord, non si provava che un terribile, ma al tempo stesso affascinante, senso di vuoto. Gli occhi non incontravano nessun punto di riferimento e c’era bisogno dell’orizzonte per ristabilire un po’ di serenità. A meridione, le cose andavano meglio, i monti Alatau con la loro corona bianca e scintillante di neve fresca, rincuoravano il viandante.
Una donna dalle dimensioni esagerate con un seno lasciato libero di crollare fino ai fianchi sotto i colpi della forza di gravità, uscì mentre eravamo in procinto di rimetterci in marcia verso la prossima oasi per autotrasportatori.
“Entrate, entrate, è aperto, su dai, c’è vento”. Un foulard tutto fiori colorati, avvolgeva un viso scuro dove trionfava un naso camuso in procinto di essere soffocato dalle guance ben pasciute. Un gatto ci diede il benvenuto, venendosi a strusciare non appena ci sedemmo sulle panche che giravano tutt’intorno al tavolone. Ordinammo due lagman, una zuppa di noodles fatti in casa molto densa con pomodori, paprika e piccoli pezzi di carne, popolare in centro Asia con mille variazioni. La carne, grigia e gommosa, fu molto apprezzata dal gatto che si dileguò appesantito dopo aver fatto una scorpacciata. La tenda che separava la cucina e il salone principale si mosse. Un uomo di mezza età fece capolino. Il suo sorriso triste invase la stanza. Alto e magro, indossava un paio di ciabatte da cui spuntavano unghie annerite, pantaloni neri una taglia più grande, una camicia arancione che sembrava un antidoto alla malinconia. Veniva dalla Cecenia e da tre anni era fermo qui. La mansione? Aiutante. Una stempiatura avanzata non gli impediva di portare i capelli castani lisci e setosi più lunghi della media. Quella capigliatura gli donava un’aria da artista degli Anni ’70, era un personaggio da cartolina in bianco e nero. Per quanto si sforzasse di sorridere, non riusciva a cancellare dai suoi occhi una mestizia che lo faceva sembrare pronto a scoppiare in un pianto liberatorio. Le occhiaie scure sembravano cicatrici lasciate dalle avversità di una vitaccia.
“Italia? Capri!” esclamò, variando il tono di voce fino ad allora affranto. Fuggì in cucina e tornò con due libri dello scrittore russo Maksim Gorkij, un mostro della letteratura russa. Un brivido corse lungo la mia schiena: avevo letto “Bassifondi”, un’opera geniale di un artista dal talento cristallino. “Passò del tempo in Italia, a Capri. Lui è il mio scrittore preferito”. Sfogliai le pagine unte, macchiate, fitte di annotazioni. Rimasi di stucco quando iniziò a recitare a memoria alcune pagine. “Non conosco tutte le opere a memoria, ma solo i passaggi per me più importanti”.
Gorkij, sul finire del XIX secolo, viaggiò povero e libero attraverso l’allora Impero Russo, facendo un po’ di tutto per mantenersi. Anni di esperienze con gli ultimi e gli emarginati che divennero materiale che il suo straordinario lirismo trasformò in opere di altissima qualità. Il ceceno sapeva tutto di Gorkij e per un attimo immaginai che i tre anni passati in questa stamberga, altro non fossero che una tappa di un viaggio alla Gorkij. Lo scrittore definì i suoi anni di viaggio “vita azzurro cielo”, lo stato d’animo del ceceno non faceva pensare a versi cosi radiosi. “Tieni questi libri, cosi potrai praticare il russo”, mi disse mentre stavamo uscendo. Rifiutai con fermezza. Accettandoli, avrei reciso il filo che ancora lo nutriva di speranze, sarebbe stato come pugnalare l’ultimo amico rimastogli.