Spesso sono antichissime, talmente antiche che in molti casi è difficile ricostruirne i confini. Parliamo delle proprietà collettive o terre civiche -in genere terreni e a volte anche edifici e addirittura acque, come quelle lagunari – la cui titolarità appartiene all’intera comunità.
Ufficialmente, in base a quanto previsto da una legislazione che risale addirittura al 1927, quando si cercò di mettere un po’ di chiarezza, la loro esistenza è certa solo in 46 Comuni regionali. In appena una decina di casi queste proprietà sono amministrate dal Comitato frazionale, regolarmente costituito. Le restanti terre civiche dovrebbero essere affidate alle Amministrazioni comunali, ma spesso questi patrimoni sono abbandonati e incolti. Peggio, sono utilizzati in modo del tutto inconciliabile con la loro natura.
Ecco dove operano in regionei Comitati di gestione
Uno dei motivi di maggiore attrito tra il Coordinamento regionale della Proprietà collettiva e i municipi è legato proprio al fatto che, anche dove potrebbe costituirsi tranquillamente un comitato di gestione, c’è la tendenza del Comune a proseguire nell’amministrazione “in nome e per conto della Frazione”, di fatto abusando di una norma della legge che avrebbe dovuto essere transitoria. Ben diverso il caso di Marano Lagunare, dove l’attuale sindaco Devis Formentin ha fatto lo sciopero della fame per protestare contro il ripetuto tentativo di espropriare la comunità maranese dei suoi diritti sulla laguna.
Dove esistono “Usi civici” accertati, tutta la popolazione regolarmente residente è chiamata ad eleggere un Comitato di 5 membri che gestisce, come un piccolo ente locale, la proprietà frazionale.
I benefici possibili grazie alla gestione diretta
La votazione è indetta dal Comune su richiesta della popolazione locale, sentiti il Commissariato regionale agli Usi civici e la Regione. Molte terre civiche insistono per altro su territori montani. I fautori di un ritorno all’amministrazione diretta di questo patrimonio sono convinti che in tal modo sarebbe possibile entrare a pieno titolo nella filiera.
Lo si farebbe rispettando però più di quanto non si faccia ora il bosco perché “non mira soltanto allo sfruttamento economico della risorsa ma, nel mentre la lavora, la coltiva e la valorizza, anche sotto l’aspetto ambientale e paesaggistico (assicurando manutenzione e pulizia del territorio e incentivando la conservazione delle forme tradizionali di sfruttamento agricolo)”.
Anche in pianura, secondo il Coordinamento regionale, potrebbero essere avviate aziende agricole sperimentali organizzate anche come fattorie didattiche, passando dall’affitto (per lo più finalizzato a colture intensive) alla gestione diretta dei fondi. In tal modo sarebbe anche possibile aprire nuove prospettive per chi persegue il reimpianto di coltivazioni tipiche e per l’agricoltura Biologica.
Avviare la gestione diretta del patrimonio avrebbe anche il merito di impiegare manodopera locale, limitando così, in particolare nelle aree montane, la disoccupazione e lo spopolamento. Resterebbe così sul territorio la ricchezza prodotta e si potrebbe anche andare incontro alle concrete necessità dei residenti sui vari “Usi civici”, come legnatico, fabbrico e rifabbrico, pascolatico, fungatico, erbatico… – da riorganizzare secondo appositi regolamenti predisposti a cura della stessa comunità.