Il vantaggio competitivo nello sviluppo industriale del Friuli, tra gli Anni ’60 e ’70, era rappresentato da tre ‘leve’: credito agevolato attraverso il Frie, capitale di rischio grazie a Friulia e insediamento assistito nelle zone industriali programmatiche (Zip). Queste ultime, però, già negli Anni ’80 hanno perso la propria forza attrattiva, sono state trascurate dalla politica industriale regionale, si sono limitate a svolgere un ruolo di immobiliarista e, spesso, di ‘amministratore di condominio’. Anche uno dei loro obiettivi, quello di limitare il consumo di territorio al di fuori delle aree individuate, è fallito a causa del proliferare di zone produttive e artigianali in quasi tutti i Comuni, come anche dei distretti industriali.
Un nuovo ruolo delle zone industriali e dei loro Consorzi di gestione è chiesto con forza dal sistema economico e la stessa amministrazione regionale lo ha posto quale prioritario nel piano di politica industriale su cui sta lavorando.
Affinché questo loro ‘ripensamento’ abbia successo, però, è importante sradicare i fattori che hanno determinato il loro fallimento. Va fatta chiarezza sul loro obiettivo finale: attirare industrie da fuori regione e dall’estero. I dieci Consorzi attualmente esistenti devono marciare assieme: ben venga, quindi, una società unica regionale. Non devono essere guidati dalla politica di bassa corte e i loro Cda non devono essere ricettacolo di politici trombati o riciclati: i Comuni soci non devono avere la maggioranza.
Fermi agli Anni ’80
Uno sviluppo che non centrato gli obiettivi. È questo il bilancio contenuto nello studio realizzato dagli economisti Fulvio Mattioni e Paolo Ermano, commissionato dalla Cisl di Udine. i dati analizzati dimostrano che complessivamente nelle dieci Zip istituite nella nostra regione la superficie totale occupata sfiora l’80%, mentre quella delle imprese attive é pari al 44,8%. Rispetto ai piani, i lavoratori realmente oggi occupati sono il 38,5%; tra essi gli addetti manifatturieri sono il 69% di quelli totali. Ci sono, però, profonde differenze tra i diversi consorzi.
Per esempio, se Cipaf e Cosint hanno pochissimo spazio ancora a disposizione per nuovi insediamenti, Ziu e Ziac, praticamente, sono mezze vuote. Buona saturazione per il Nip, ma scarsa per Zipr e Csi. A Trieste, poi, dietro l’altro livello di occupazione si nasconde, invece, una scarsa presenza di industrie vere e proprie.
Nelle dieci zone industriali, a fine 2013, risultano attive 1.478 imprese con 37.255 lavoratori occupati. Per la crisi economico, dal 2009 a oggi, sono stati persi 5.278 posti di lavoro.
Amministratori di condominio
La struttura organizzativa dei Consorzi ha un costo: sono cento i dipendenti, ma distribuiti in maniera non omogenea. Negli ultimi cinque anni la loro operatività è costata 91 milioni di euro. Va precisato, comunque, che uno di loro in default finanziario, il Ziac, ha assorbito da solo 43,4 milioni.
Nel 2013 la spesa media per marketing, presupposto per la ricerca di nuovi insediamenti, è stata in media di seimila euro, ma per qualcuno è addirittura zero da anni. Questo conferma l’opinione, secondo i due ricercatori, che si tratti più di ‘amministratori di condominio’ che si agenzie di sviluppo.
“Serve – commentano Mattioni ed Ermano – una forte spinta verso la collaborazione dei vari soggetti attivi nel campo dell’insediamento delle imprese: Zip, Pip, Distretti industriali, Bic e Parchi scientifici e tecnologici, che spesso si ignorano quando non sono conflittuali”.
Serve, suggeriscono, una ‘cabina di regia’ che coinvolga i veri protagonisti dell’insediamento delle imprese; eroghi servizi per facilitare la vita dell’imprenditore, per esempio con una burocrazia amica e a basso costo; eroghi servizi essenziali a basso costo come energia, gestione rifiuti, sicurezza, logistica, internet; faccia attività di marketing territoriale per attrarre nuove aziende e sviluppare progetti anche con fondi europei.
Bolzonello – Riforma d’autunno, sognando l’ente unico
La riforma del Consorzi delle zone industriali è una colonna portante del piano di politica industriale che la giunta regionale è intenzionata a varare entro l’autunno. Al momento attuale, ha analizzato diverse opzione, alcune praticamente già scartate, altre su cui la discussione non è esaurita. A illustrarle è lo stesso assessore alle Attività produttive, Sergio Bolzonello.
La prima ipotesi riguarda un semplice maquillage, giudicato da subito inadeguato viste le necessità dell’economia. La seconda propone la messa in liquidazione dei Consorzi inefficienti e in sofferenza finanziaria, ma porterebbe a un percorso lungo, ingessando nel frattempo l’operatività e l’erogazione dei servizi. Terza ipotesi, molto ambiziosa, è la creazione di un unico soggetto regionale di gestione di tutte le zone industriali e, in prospettiva, anche delle maggiori Pip comunali; sarebbe la soluzione ideale secondo Bolzonello, ma i tempi non sembrano essere ancora maturi.
Tassello di politica industriale
L’ipotesi più accreditata, che dovrà concretizzarsi in un provvedimento normativo, è quello di un riordino dell’esistente, con la fusione tra i Consorzi esistenti per ambiti omogenei; si dovrebbe, così, passare da dieci a cinque. A questo punto, però, si aprono due questioni altrettanto importanti. La prima riguarda i servizi che i rinnovate enti saranno chiamati a erogare. Servizi, ovviamente, aggiornati alle esigenze delle imprese. L’altro riguarda la governance, visto che in tutti questi anni il peso maggiore nei singoli Consorzi lo hanno sempre avuto le amministrazioni locali, anziché le imprese.
“I sindaci hanno dimostrato – si è spinto ad affermare Bolzonello – di non riuscire a gestire i consorzi con unità d’azione, rendendo l’impresa non determinante nelle scelte”.
Obiettivi e funzioni
Obiettivi e funzioni. Soltanto facendo chiarezza su questi si può far ripartire le zone industriali nel contesto di una vera politica industriale. È quanto richiama Paolo Ermano, del Dipartimento di Scienze economiche dell’Università di Udine, che assieme all’economista Fulvio Mattioni ha realizzato il recente studio sui consorzi industriali regionali, commissionato dalla Cisl di Udine.
Perché a un’azienda non è sempre convenuto insediarsi all’interno di una zona industriale?
“Iniziamo col dire che solo una zona industriale di una certa dimensione può dotarsi di infrastrutture adeguate per la logistica, di una rete veloce per i dati, di servizi per i lavoratori e di un sistema di ‘burocrazia amica’ per gli insediate. Questo è sicuramente un luogo in cui si possono ottenere economie di scala e di scopo utili a tutti gli insediati. In parole povere: meno costi per tutti. È la logica dell’aggregazione.
Purtroppo, nella nostra regione ci sono creati troppi spazi, spesso piccoli, in cui insediarsi: ad esempio, oltre ai molti consorzi, abbiano troppe aree industriali comunali. Questo crea dispersione, non aggregazione, riducendo la possibilità di attirare e agevolare le aziende.
È un fatto: la dispersione rappresenta un costo che si evidenzia solo nel medio-lungo periodo, spesso nella forma di mancati guadagni.
In Friuli molti hanno deciso di insediare l’azienda nel proprio comune, in una sorta di campanilismo aziendale. Le cause? Un problema di mentalità, unito alla scarsa capacità di attrazione dei consorzi, strumenti normativi poco chiari e, a volte, poca voglia di farvi entrare chi non si conosceva.
Oggi ne osserviamo i risultati: consorzi mezzi pieni, aree industriali mezze vuote, scarsa capacità di fare rete fra imprese, alta disoccupazione”.
Guardando avanti, secondo lei come deve cambiare il modello di attività e di servizi dei Consorzi?
“Primo, meno consorzi e organizzati secondo una logica infrastrutturale.
Secondo, la Regione deve fornire leve normative per facilitare l’insediamento nei consorzi.
Terzo, i consorzi devono fare promozione, far conoscere i loro spazi e i loro servizi, anche all’estero.
Quarto, servono meno contributi alle imprese e più contributi alle infrastrutture, materiali e immateriali. Bisogna creare le condizioni per attrarre sempre nuove imprese, non mantenere in vita aziende o settori decotti.
Insomma, serve una politica industriale che chiarifichi due questioni: obiettivi e funzioni. Senza obiettivi non riusciremo mai a governare bene il territorio. Governare bene significa evitare doppioni, chiarificare le prerogative e le responsabilità e capire come ogni soggetto possa, e debba, dialogare con le istituzioni e le imprese”.
Esistono esempi in altre regioni o in altri nazioni da cui si può ‘copiare’?
“Ogni territorio ha le sue caratteristiche culturale. È banale come concetto, ma se in Friuli domina una logica campanilistica, è inutile applicare modelli che prevedono come punto di partenza, e non di arrivo, la condivisione: non funzionerebbe!
Ricordo, però, che fra i miti industriali di oggi ci sono la Silicon Valley e la Cina. Due realtà che si basano sull’aggregazione, sulla logica della filiera. Verso quella direzione dovremmo andare”.
Chi si occupa attualmente di attrarre nuove industrie in regione? O per meglio dire chi dovrebbe e come lo dovrebbe fare?
“Attorno, in Austria o in Slovenia per esempio, c’è ha una e una sola agenzia con questo scopo. Da noi, invece, ci sono molti enti che fanno promozione: direi le Camere di commercio, la Regione, potenzialmente i Consorzi. Ognuno, però, si muove più o meno per conto proprio e con armi spesso spuntate.
Si torna al punto di partenza: ci vuole aggregazione, un soggetto unico con un mandato chiaro e criteri di valutazione dei risultati. Insomma, ci vuole una chiara politica industriale”.