Industriale e politico, ma soprattutto economista. Nella sua poliedrica vita, Riccardo Illy non ha mai smesso di scrutare il futuro delle dinamiche globali e locali, non solo per tracciare la rotta dell’azienda di famiglia, ma anche per suggerire all’intera società un percorso che possa anticipare i tempi prevedendo, e se serve prevenendo, i cambiamenti. Il suo unico ruolo oggi è di presidente della holding del gruppo, che controlla 4 società, la cui più importante è illycaffè, e partecipa in altre due, componendo così un paniere di prodotti alimentari di alta qualità, prodotti in maniera etica e proposti nel mercato mondiale.
Dall’era della conoscenza degli Anni 2000, stiamo oggi riscoprendo il manifatturiero proprio nel momento in cui viene decimato. La prossima che era sarà?
“Il ritorno al manifatturiero è frutto del riequilibrio dei costi della manodopera, che in Oriente stanno raggiungendo quelli dei Paesi occidentali, e negli Usa è accentuato dal basso costo dell’energia. È un fenomeno di vasi comunicanti. Se, però, fino a oggi ha interessato l’industria manifatturiera, con un flusso verso per esempio la Cina cui segue ora un reflusso, presto riguarderà i servizi, la cui domanda è destinata a calare da noi e ad aumentare nel Far East. In questo contesto crescerà anche la domanda di beni di qualità, per i quali Paesi come Francia e Italia sono leader mondiali. Detto questo, in verità siamo ancora nell’era della conoscenza. E quando, anni fa, prefiguravo questo, dicevo anche che sarebbe seguita l’era dell’estetica. E così sta avvenendo. Però, le aziende locali non stanno sfruttando pienamente questo passaggio”.
Innovatori e conservatori: ci faccia una sua short-list delle due categorie oggi in Italia.
“Senza voler generalizzare e tenendo presente che ci sono sempre le eccezioni, nella prima categoria inserisco gli imprenditori e i loro collaboratori, che operano nel campo dell’ingegno e dell’estetica. Ci sono, poi, alcuni politici, come Matteo Renzi. Quindi, il mondo dell’arte, della scienza e una parte di quello accademico, in cui inserisco a pieno titolo i rettori delle nostre due università”.
E tra i secondi?
“Tra i conservatori, invece, ci sono i sindacati, che continuano a difendere i diritti di una determinata categoria di lavoratori sempre più ristretta, cioè i subordinati a tempo indeterminato, non capendo che questo arroccamento non consente di distribuire diritti a quella che è ormai diventata la maggioranza dei lavoratori. Conservatori sono anche i burocrati, che di fronte a una politica impreparata, superficiale e con obiettivi di breve termine, hanno potuto rafforzare il loro potere”.
Dall’inizio della ‘crisi’, quale legge o riforma del governo nazionale ha avuto reali e incisivi effetti sulla vita delle imprese?
“Nessuna, se si esclude la correzione alla legge Fornero. In Italia è stato costruito nel corso del tempo un mostro giuridico, un moloch fatto da 40mila leggi vigenti, che ha generato una cultura diffusa del ‘tutto è vietato fuorché quello che è espressamente autorizzato’. Dei tre poteri istituzionali, quello esecutivo è stato concepito debole dalla stessa Costituzione, quello legislativo è vittima del frazionamento partitico e di leggi elettorali una peggio dell’altra e, così, il terzo, cioè la magistratura, ha avuto spazio enorme di imporre a tutti la propria interpretazione di norme complicate”.
Come si può cambiare?
“Ci sono due soluzioni. La prima inizia con una legge elettorale che privilegi la governabilità alla rappresentatività e passa, poi, all’approvazione di 10 testi unici, per esempio per il lavoro, l’edilizia, il fisco, con l’obbligo per il Parlamento della decimazione legislativa: ogni legge approvata deve prevedere l’abrogazione di dieci vigenti. Tutto questo richiede 10 anni di tempo, ma è un periodo che non interessa a nessun politico. Ci vorrebbe un politico ‘polietico’, quello che antepone l’interesse generale al particolare e l’obiettivo di lungo termine a quello di breve”.
E la seconda soluzione?
“Scatta se non si persegue la prima: le tensioni sociali sono destinate a crescere nei prossimi anni, immagino cinque, e porteranno a sconvolgimenti rivoluzionari”.
La rappresentanza di voi industriali, oggi, è all’altezza della situazione?
“Confindustria, come i sindacati, rimane legata al passato, senza una visione riformatrice. Dovrebbe, invece, avere un ruolo propositivo, anziché limitarsi ad attendere e commentare le mosse della politica”.
La ‘ricetta’ di governo regionale che lei aveva adottato sarebbe valida oggi che il contesto è profondamente cambiato?
“Al tempo, forse, il mio programma era troppo innovativo per essere compreso da tutti. Ieri come oggi, però, chi non innova muore. E molte imprese stanno morendo. La nostra è una crisi sistemica e non congiunturale. È molto simile a quella del ’29, da cui si uscì solo con uno shock, cioè la Seconda guerra mondiale. Sperando di evitare una simile prospettiva, anche se potrebbe scoppiare una guerra di civiltà con un certo Islam, dobbiamo sperare in uno shock tecnologico”.
L’innovazione rimane sempre la leva per il rilancio dell’economia?
“L’economia langue perché langue la tecnologia. Oggi facciamo solo innovazione incrementale, migliorando cioè invenzioni vecchie che risalgono a oltre un secolo fa: rendiamo più efficienti le automobili, ma sono basate sul motore a scoppio di fine ‘800; la forma dell’aereo è la stessa da sempre; in medicina continuiamo ad agire sui sintomi e non sulle cause. Ci rendiamo conto che non siamo ancora riusciti a debellare l’influenza? Quel che serve, quindi, è l’innovazione dirompente, che però è molto costosa e, spesso, in contrasto con l’interesse economico delle lobby. Quindi, è il pubblico che dovrebbe farsi carico di investire su questo, concentrando le risorse per pochi risultati in grado di cambiare il corso della storia”.
Friulia e Mediocredito: quale ruolo?
“Per Friulia, ed è un’idea che ho maturato solo di recente, prospetto il ruolo di agente per attirare investimenti esterni alla regione, sia italiani, sia esteri. Deve promuovere i vantaggi competitivi del territorio, non solo di finanza agevolata, ma anche per esempio logistici. Mediocredito, in passato, ha funzionato perché aveva un capitale pubblico, ma una gestione privata affidata alle banche socie di minoranza. Quando anche la Regione ha voluto assumere direttamente la gestione, il giocattolo si è rotto. Potrà avere un futuro solo se la quota della Regione diventerà di minoranza, rendendo l’istituto un erogatore di mutui e leasing attraverso le piccole banche locali, friulane e anche venete. Confido nell’attuale bravissima presidente, che ha tutte le capacità per rilanciarlo”.
Può spiegare a un friulano, in estrema sintesi, perché il porto di Trieste non riesce a svolgere il ruolo che la geografia gli ha assegnato?
“Oggi costa meno spedire un container per 3.000 miglia a Hong Kong che per 300 chilometri da Udine in Lombardia. Le prime navi portacontainer portavano 150 Teu, quelle di ultima generazione 18mila e le prossime 20mila. Solo pochi porti, grazie ai fondali profondi, sono in grado di accoglierle e in Mediterraneo sono meno di dieci. Uno è quello di Trieste, che è anche quello più vicino al Centro Europa. Questo fa capire che oggi sta emergendo un’enorme opportunità per il binomio tra industria friulana e porto di Trieste. Detto questo, il motivo dell’arretratezza ha radici politiche. Trieste è stata dominata, fino a poco tempo fa, da un politico del centrodestra, Giulio Camber, che ha sempre combattuto contro lo sviluppo della città, temendo che avrebbe portato a un’immigrazione di persone, che avrebbero votato il centrosinistra. La sua è stata una scelta consapevole e cinica, ma per fortuna questo potere oggi sta svanendo”.
Che futuro può avere il Friuli, quale entità sociale, economica e anche culturale?
“Manifatturiero, spinto sull’innovazione e capace di attirare il ricollocamento delle produzioni grazie alla logistica. Agricolo, ma di qualità. Turistico, essendo la prima spiaggia del grande mercato del Centro ed Est Europa. Deve sapere sfruttare il proprio passato di emigrazione, esportando merci e servizi anziché persone. Deve valorizzare il suo plurilinguismo, compreso il friulano, non solo per i vantaggi di neuro-apprendimento, ma anche perché è nei gruppi eterogenei che la creatività è maggiore. La questione dell’identità non è affatto segno di provincialismo”.
La rivedremo ricoprire incarichi pubblici?
“Non li cerco, mi sono già auto-rottamato. Però, per spirito di servizio, ognuno deve essere sempre pronto a dare il proprio contributo per la comunità”.
Dopo Napolitano, chi le piacerebbe salisse al Quirinale?
“Una personalità come Ciampi, che alla saggezza e alla forza univa anche una visione economica”.