Mentre ci accompagna nel piano nobile del palladiano palazzo Antonini Maseri, dove presto si trasferirà il rettorato, spiega disegnando a gesti nell’aria come saranno la scrivania sua, quelle dei suoi collaboratori e il grande tavolo del senato accademico. E allo stesso modo descrive il futuro dell’Università di Udine, anzi del Friuli come era nella definizione originaria, e dove la vuole guidare nei prossimi sei anni. Roberto Pinton, nuovo rettore, si sente friulano non di nascita, ma di diritto acquisito: da giovane ricercatore ha scelto proprio questa città per iniziare la carriera e trasferire la famiglia appena creata. E qui è rimasto. “Dal Friuli ho avuto tutto – sottolinea – e ora voglio restituire”.
La prima volta che ha attraversato la Livenza, però, risale a prima della carriera accademica…
“È vero: nel 1981 ho fatto il militare a Jalmicco, fanteria d’arresto, quelli per intendersi che in caso di invasione dall’Est dovevano contrastare per almeno sette minuti l’avanzata del nemico. Il periodo di leva, però, mi è servito per vivere da vicino il clima del post terremoto. Poi sono tornato nel 1986 da ricercatore e ci sono rimasto per sempre”.
Come erano i friulani di allora?
“La considerazione di loro, provenendo dal Veneto, era di un popolo laborioso ma chiuso, con un grande senso di comunità, anche alimentato da eventi tragici come il sisma. Quando, poi, mi sono accasato qui alcuni miti sono stati smentiti: i friulani sono più aperti e ospitali di quanto si pensi”.
Lei è docente ed è stato anche preside della facoltà di Agraria della nostra Università: l’agricoltura friulana è oggi all’angolo per tutta una serie di fattori. Ha un suggerimento da dare?
“Propongo di discutere su tre concetti: qualità, sostenibilità e multifunzionalità. In passato, purtroppo, le scelte imprenditoriali si sono appiattite sui contributi europei senza sviluppare un modello produttivo capace di rispondere alle reali domande di mercato e ai cambiamenti che questo impone. Oggi, ci troviamo con un settore fortemente ridimensionato in termini di numero sia di aziende sia di addetti ed è più che mai sentita la necessità di definire una precisa politica di sviluppo che puntando su innovazione e qualità consenta all’agricoltura di dare il giusto contributo al Pil del Friuli-Venezia Giulia.
È vero, d’altro canto, che esistono settori di eccellenza, quali ad esempio la viticoltura e che si sta sviluppando una nuova generazione di agricoltori, quasi tutti diplomati negli istituti agrari locali e molti addirittura laureati presso lo stesso ateneo, che hanno una mentalità diversa dal passato e più adatta ad affrontare le sfide di un mondo produttivo in continua evoluzione”.
La nascita dell’Università serviva a frenare l’emigrazione di giovani. Dopo oltre quarant’anni è un obiettivo consolidato?
“Credo che sia stato raggiunto, ma va mantenuto. Gli studenti iscritti all’Università di Udine hanno continuato a crescere fino a raggiungere negli ultimi anni 15-16mila unità, un numero adeguato a garantire un buon livello di qualità dell’offerta formativa e dei servizi. Sta arrivando, però, una flessione nella curva demografica dei neodiplomati in regione e la mobilità studentesca è vista oggi come un fattore normalissimo, questo significa che per mantenere un livello di iscritti sostenibile è necessario aumentare l’attrattività fuori dai confini regionali.
Attualmente, gli studenti fuori sede rappresentano mediamente il 15% degli iscritti: tale componente va aumentata sul piano nazionale, ma credo anche che le nostre sedi di Gorizia e, in particolare, Pordenone possano intercettare una richiesta di formazione dai territori limitrofi. Per le lauree magistrali, invece, penso che la leva giusta sia la caratterizzazione dei percorsi formativi e l’internazionalizzazione. Per il programma Erasmus il bilancio numerico è ancora negativo, ovvero il numero di nostri studenti che fanno un periodo all’estero è superiore a quello degli stranieri che frequentano qui i nostri corsi. Però, la maggior parte di questi ultimi, dopo aver fatto un semestre, chiedono il prolungamento, segno che apprezzano l’ambiente e l’offerta didattica. Gli studenti stranieri regolarmente iscritti ai nostri corsi di studio, invece, sono ancora in numero limitato, ma credo possano aumentare con lo strumento del doppio riconoscimento del titolo e quindi attraverso nuove convenzioni con università straniere”.
Cantiere Friuli: cosa ha portato fino a oggi?
“L’ho visto nascere e all’inizio potevamo considerarlo una vera e propria scommessa. Posso dire che finora è stata vinta. Sono stati creati gruppi di lavoro, le cosiddette ‘officine’, che portano idee e progettualità sul territorio. Così l’Università svolge parte della famosa terza missione”.
Ha intenzione di farlo proseguire?
“Vorrei non solo farlo continuare, ma anche strutturarlo meglio nell’ambito delle attività di ateneo e riconsiderare le tematiche delle officine. Per essere più incisivo il Cantiere, pur sempre con la regia dell’Università, deve trovare maggiore condivisione con gli attori locali, economici e sociali”.
Lei appartiene a quella generazione di giovani professori che sono cresciuti e hanno fatto crescere l’allora giovane Università di Udine. Vi siete nel frattempo trasformati in baroni?
“Per me e per molti della mia generazione Udine è stata una grandissima opportunità. Qui abbiamo deciso di investire tempo e impegno in un ambiente non contaminato da dinamiche baronali e forti pressioni esterne. Per quanto mi riguarda ho sempre coltivato l’attività didattica e scientifica, senza mai abbandonarle anche quando ho deciso di impegnarmi in ruoli accademici istituzionali.
Dopo quarant’anni, però, l’Università di Udine può tirare delle somme: quali ‘scuole’ ha creato, quanti nuovi docenti sono partiti da Udine, dove sono andati e se possono contribuire a fare rete nell’interesse di questo ateneo. Volendo fare un piccolo esempio, il mio prima tesista a Udine, Stefano Cesco, è da qualche anno preside di facoltà presso la Libera Università di Bolzano, con cui esiste una solida collaborazione didattica e di ricerca”.
Dove vuole portare l’ateneo nei prossimi sei anni?
“Nella fase della maturità. Dobbiamo definire, area per area, quali sono le peculiarità del nostro profilo formativo e della nostra capacità di ricerca. E fare questo senza irrigidire l’offerta didattica e l’organizzazione perché le università che svolgono bene il loro ruolo sono quelle che riescono a precorrere i tempi rispetto ai cambiamenti della società”.
Un’ultima battuta: perché sui suoi profili social fa una citazione poco accademica, ma certamente molto efficace, di Vasco Rossi?
“È tutto un equilibrio sopra la follia: credo sia una frase indicativa di come vadano affrontare le sfide”.