Tutti sanno dove si trova la Cina sulla carta geografica, alcuni ci sono anche stati, diversi fanno affari con quell’enorme mercato e altrettanti ci sperano per uscire dalle secche di una domanda interna ed europea asfittica, ma pochissimi sanno veramente cosa è la Cina e chi sono i cinesi. E siccome in questo secolo non si potrà non tenere conto di questo complesso sistema economico, sociale e culturale, è meglio liberarsi quanto prima di un’ampia serie di luoghi comuni, leggende metropolitane e false credenze. Per un imprenditore è doppiamente importante farlo, per evitare che partendo col piede sbagliato qualsiasi sua iniziativa in quella direzione sia segnata da fallimento ancora prima di concretizzarsi.
Tutta questione di ‘faccia’
E’ un Paese in continua evoluzione, con grandi differenze tra città e campagna, ma certi principi sono fissi da oltre cinquemila anni: ecco come conquistare
la fiducia di un cinese
È vero, lavorano moltissimo, ma per obiettivi precisi. Non copiano tutto, perché grazie a investimenti e formazione non ne hanno più bisogno come prima. Grazie al web è in corso un processo di democratizzazione, pur sempre all’interno di un partito unico. Sono grandissimi fumatori, seppur i giovani tendano a non prendere il vizio. Sono immensamente curiosi e questa potrebbe essere la chiave d’ingresso in un grande mercato. Da nove anni Matteo Bavaresco, bassanese d’origine, vive e lavora in Cina, dove attualmente guida la controllata del Gruppo Danieli, ed è responsabile per tutto il Sudest asiatico per conto della multinazionale ‘tascabile’ di Buttrio, leader negli impianti siderurgici. E su numerosi luoghi comuni punta il dito, perché pericolosa premessa per un business destinato al fallimento.
“Sono ancora numerosi i miti da sfatare – spiega – tenendo presente che la Cina ha mille sfaccettature, che tendono a cambiare giorno dopo giorno. Esistono, però, dei principi validi da cinquemila anni”.
Che Cina conosciamo noi in Italia?
“Quella rappresentata dai 400mila cinesi emigrati, che però giungono quasi per la totalità da un’unica provincia nel Sudest del Paese, dove esiste la più alta concentrazione di imprenditorialità medio-piccola. Rappresentano, cioè, una cultura fortemente orientata al business e al risparmio”.
Che realtà, invece, è oggi la Cina?
“Un Paese dalle grandi differenze tra campagna e città e con un forte sbilanciamento della ricchezza, che si concentra nella costa orientale e che sta crescendo nei distretti industriali del Sud e nelle capitali del Nord. L’anno scorso, inoltre, c’è stato il ‘sorpasso’ della popolazione urbanizzata rispetto a quella rurale”.
Come conoscono l’Italia?
“Certamente le parole chiave rimangono pasta, pizza, Firenze, Venezia, Roma, Ferrari, ma anche le beghe politiche e, indubbiamente, anche Danieli visto che siamo stati una delle prime aziende italiane a operare fin dalla fine degli Anni ’70. Però, rispetto a 10 anni fa quando sono arrivato, i cinesi oggi viaggiano e leggono molto di più e, quindi, sta crescendo la conoscenza del nostro Paese”.
Quali miti può sfatare?
“Lavorano come cinesi: parzialmente vero, ma si impegnano su obiettivi e finito l’orario hanno pochi hobby. Non fanno qualità: assolutamente falso. La loro economica continuerà a crescere: no, è già in rallentamento. La produzione è di basso costo: non più, per i colletti bianchi la preparazione e lo stipendio si stanno avvicinando agli standard europei. Ti copiano sempre: non ne hanno più bisogno come prima, grazie a innovazione e formazione. Non esiste la democrazia: è da tempo avviato, anche grazie ai media e al web, un processo di evoluzione, pur all’interno sempre di un partito unico. Sono grandi fumatori: sì, anche se nelle città i divieti di fumo stanno crescendo e tra i giovani è un’abitudine che sta calando. Sono, infine, immensamente curiosi e questa caratteristica può diventare una potente arma di marketing per le aziende estere che vogliono entrare e crescere in questo mercato”.
Che appeal possono avere i prodotti bandiera del Friuli? Il vino, per esempio?
“Oggi, tra i 700 milioni di cinesi che vivono in aree urbane, 60 milioni sono considerati ricchi. Nel 2013 sono state vendute 200 milioni di bottiglie di vino, di cui 120 milioni francesi e il restante spartito tra Cile, Spagna, Argentina, Australia e Italia. Pur essendo i nostri vini indubbiamente superiori, sono praticamente assenti. Si sbaglia, purtroppo, l’approccio: le missioni di presentazione, con degustazioni per qualche centinaio di ospiti e la stretta di mano con le autorità non servono a nulla, sono una goccia in un mare enorme. I francesi sono leader perché sono qui presenti con le loro catene di Gdo e di catering. Dovremmo creare consorzi di vendita per la fascia media rivolgendoci alla distribuzione già presente, straniera o anche cinese”.
E i mobili?
“Stanno avendo successo delle catene di vendita di arredamento in stile italiano, ma prodotto localmente. Quindi, l’interesse è altissimo, ma l’offerta di made in Italy è ancora scarsa, nonostante il cinese sia disponibile a spendere molto per la propria casa”.
Come ci si deve approcciare a un cliente cinese?
“Uno dei valori validi, appunto, da cinquemila anni è quello della reputazione, cioè la ‘faccia’. In tutti i livelli sociale, un cinese prima se la costruisce e poi si presenta alla vita pubblica. Va, quindi, rispettata al massimo e saputa sfruttare nei rapporti commerciali, al contempo presentando al meglio la propria reputazione. In perfetta buona fede, molti imprenditori giungono qui credendo di trattare con un europeo e, così, appaiono arroganti e si vedono chiudere le porte a qualsiasi business, ancora prima di discuterne”.
Come si conquista un cinese?
“Per rompere il ghiaccio e creare un feeling con un cinese, io gli spiego che tra le nostre culture esistono tre, e questo numero per loro ha un alto valore simbolico, valori comuni. La famiglia, il piacere di mangiare assieme anche per parlare di business e la flessibilità nel risolvere i problemi. Tenendo presente questo, si può partire col piede giusto”.
Stipendi in crescita e burocrazia da incubo
Non ultimo, lo scarso senso di fedeltà all’azienda: gli agenti commerciali spesso dirottano i contratti ai concorrenti
La Cina non è più la mecca della manodopera a basso costo. Lo conferma Roberto Menegon, amministratore delegato della Julia Utensili, azienda di Tarcento, leader mondiale nella produzione di seghe circolari per il taglio di metalli. Con fatturato di 20 milioni di euro realizzato in gran parte all’estero, è presente da anni anche in Cina, dove attualmente esporta il 7-8% della produzione.
“È un mercato molto difficile, non solo per la competizione in termini di prezzo – spiega Menegon, alla guida di un’ottantina di dipendenti – ormai sono cresciuti molto anche i produttori locali che si propongono con una qualità accettata da quel mercato, ma con prezzi molto più bassi dei nostri”.
Per i beni di consumo la domanda di lusso made in Italy è in costante crescita, ma per prodotti e servizi tecnici la musica è diversa. Le difficoltà del mercato cinese, però, sono anche altre, in particolare la gestione del personale, il costo del lavoro e dei servizi e, non ultimo, la burocrazia.
“I cinesi hanno uno scarso senso di appartenenza all’azienda – continua – così che è considerato normale anche il tradimento commerciale: capita spesso che agenti dirottino gli ordini ai concorrenti, per ottenere un maggiore profitto personale. Per noi è una pratica assolutamente da condannare, per loro invece fa parte delle regole del business”.
In un’ottica produttiva, anche il costo del lavoro è decisamente cambiato, seppur rimangano enormi differenze tra le zone industriali e le metropoli rispetto alla campagna. A Shanghai un tecnico o un’impiegata con conoscenza dell’inglese costano, ormai, come in Italia.
“Nei contratti di lavoro ultimamente sono state introdotte numerose tutele – chiarisce Menegon – e queste vanno, ovviamente, a incidere anche sui costi. Va tenuta anche presente una diversa e decisamente inferiore efficienza del personale cinese rispetto agli standard europei. Mentre in Europa stiamo facendo i conti con la deflazione, in Cina i costi dei servizi e anche della logistica continuano a crescere velocemente. Questo significa che produrre oggi in Cina per vendere poi in Occidente non è più un affare”.
Non ultimo, l’handicap della burocrazia, che sembra ‘competere’ se non superare quella italiana.
“La complessità burocratica è all’ennesima potenza – conclude l’Ad di Julia Utensili – così che è complicato non solo aprire un’attività, ma, come è capitato a noi, anche chiudere un semplice ufficio di rappresentanza”.
La grande illusione dei turisti cinesi
L’Outgoing è controllato dallo Stato, la capacità di spesa è bassa e c’è poco feeling col cibo italiano, eppure stiamo spendendo tanti soldi nella promozione del Bel Paese
“Basterebbe l’1% della popolazione cinese per riempire tutti gli alberghi italiani”. Da questa affermazione da alcuni anni è nato l’incanto per gli operatori turistici, ma anche amministratori pubblici, Camere di Commercio e agenzie pubbliche di promozione di poter risolvere i problemi scommettendo sul mercato cinese. A riportare tutti con i piedi per terra ci ha pensato il report di Trademark Italia.
Basti pensare che la quasi totalità del movimento outgoing cinese è controllato dai tour operator di Stato. Tutto indica che senza intermediari di Stato e verifiche di polizia è difficile allontanarsi dalla Cina. Inoltre, i viaggi all’estero dei cinesi che gli italiani traducono impropriamente con il termine ‘turismo’, sono per ora prerogativa esclusiva della Cina industriale e del terziario innovativo.
Potenziali ancora acerbi
“L’incantesimo cinese – spiega nella sua relazione Aureliano Bonini – ha convinto intere regioni a inseguire la pista degli almeno 20 milioni di ricchi turisti cinesi pronti a partire. Una notizia infondata che ha generato curiosità e rassicurato gli italiani. Ovviamente, i potenziali ci sono. I giovani rampolli della gigantesca casta politica cinese, pari a 80 milioni di funzionari dell’unico partito esistente, possono avere il passaporto e il via libera per viaggiare, ma non saranno mai turisti indipendenti dovendo seguire il rigido protocollo dello Stato. Non solo, il prezzo per una notte in hotel a 4 stelle offerto da un tour operator cinese è inferiore ai 20 euro; il movimento turistico cinese in Italia è 30 volte più piccolo di quello tedesco; i gruppi, dall’itinerario immutabile, si fermano una sola notte nelle quattro città italiane più famose e le deviazioni sono rarissime; il mercato cinese ‘mangia cinese’ e in più considera l’ospitalità italiana di qualità scadente”.
Il Report parla di qualcosa che ancora non c’é: un libero mercato turistico cinese con dati sull’outgoing meno velati dai numeri dell’emigrazione.