Intraprendenza e caparbietà dei friulani sono basi fondanti della nostra identità, ma sono ingabbiate da scelte obbligate e vengono confuse con campanilismo e rendita di posizione. L’analisi lapidaria del Friuli di oggi fatta da Marco Casula è frutto del suo amore per questa terra, in cui torna spesso e dove vive la sua famiglia. Lui, manager nel mondo da oltre trent’anni, con esperienze dagli Usa, alla Cina e alla Russia, è stato anche fondatore di uno dei Fogolârs di ‘ultima generazione’.
Approfittiamo delle sue molteplici esperienze all’estero: cosa sta succedendo oggi nel mondo?
“Sostanzialmente il mondo è diventato più piccolo e sempre più interconnesso, non solo tecnologicamente, ma anche politicamente e socialmente. Da una parte assistiamo a una diffusione praticamente immediata dell’informazione, dall’altra una serie di legami che portano a situazioni a volte difficilmente comprensibili ai più. Trovo sicuramente positivo il fatto di condividere informazioni in tempo reale, ma vedo anche che abusi e strumentalizzazione sono costanti. Oggi un cambiamento politico in un Paese genera ripercussioni dall’altra parte del mondo. Quello che dobbiamo renderci conto è che non esistono più isole felici, ma è anche vero che le opportunità si sono moltiplicate. Piaccia o no, non potremo più dire: tanto è lontano da qui”.
Che clima si respira in Russia, dove attualmente lei lavora?
“Credo sia sufficientemente nota la situazione attuale dovuta a questioni politiche. La gente comune ha un forte senso di sfiducia nelle istituzioni e nella politica in generale, direi come da noi. Per il 2015 le previsioni del Pil sono drammatiche e, con un rublo sotto pressione, l’acquisto di beni quasi tutti importati è diventato un problema quotidiano. Non più di un mese fa si sono riviste le code agli sportelli bancari, le file ai supermercati e la corsa agli acquisti pur di liberarsi dalla valuta locale. La Russia è un Paese ancora ‘in via di sviluppo’, che cerca di ritagliarsi un ruolo geopolitico significativo. Generalmente, la gente è consapevole di tale obbiettivo e il nazionalismo è diffuso. D’altro canto, i problemi quotidiani, la corruzione endemica, il generale stato di abbandono e trascuratezza delle infrastrutture, case e interi quartieri fanno sì che molti ambiscono a lasciare il Paese per posti migliori, anche in termini di qualità di vita. Ricordiamoci sempre che la Russia ha una cultura letteraria e scientifica notevole, un patrimonio inestimabile, ma è priva di una base industriale efficiente, non ha prodotti da esportare, dipende essenzialmente dalle materie prime e dal petrolio. Ci vorranno ancora un paio di generazioni per vedere finalmente uno stile occidentale nel Paese degli Zar”.
Il ‘vecchio continente’ e in particolare l’Italia, secondo lei, hanno speranze di rilancio?
“Negare una speranza significa condannare un Paese. Io sono sicuro che ci sarà un rilancio, anche perché storicamente l’Europa e l’Italia hanno affrontato sfide e situazioni peggiori. Sicuramente, si dovrà guardare ad altri equilibri, ricordando ancora le molteplici interdipendenze delle diverse economie. Ragioneremo sempre di più a livello globale, osserveremo nuove esigenze e bisogni e, di conseguenza, nasceranno nuove necessità e opportunità, che oggi magari nemmeno ipotizziamo. Per fare questo occorre stabilità politica, formazione continua e burocrazie snelle. Secondo me è una forma di evoluzione, cosa che si è sempre fatta nei secoli”.
Quando rientra in Friuli, che impressione ha?
“Sono in giro per il mondo da quasi 30 anni, ma mi sono sempre mantenuto in contatto con il Friuli, tornando relativamente spesso a casa. Considero ancora il Friuli un luogo dove qualità della vita e servizi sono, tutto sommato, validi. Non è facile trovare un posto simile nel mondo, dove si può scalare una montagna la mattina e fare il bagno al mare nel pomeriggio. Vedo oggi un Friuli che cerca di mantenere le sue tradizioni e l’identità, ma che spesso confonde con campanilismo e posizioni di rendita. Avverto un senso di decadenza e di incapacità di capire gli eventi che accadono nel mondo. Del resto le decisioni vengono prese altrove e noi dobbiamo adeguarci, ovvero siamo in balia di eventi che non possiamo controllare. La nostra identità, intraprendenza e caparbietà, che tanto ci fecero conoscere dopo il 1976, sembrano essersi diluite nei labirinti della burocrazia, nella giungla delle leggi, nelle ‘scelte obbligate’. Come dare torto a gente che fino a non molti anni fa considerava una stretta di mani più vincolante di un matrimonio?”
Vita da manager all’estero: lo consiglierebbe a un giovane?
“Oggi se si ha in mente un minimo di carriera, non si può prescindere da una esperienza all’estero, che deve essere parte del bagaglio culturale, se non altro per rafforzare la conoscenza linguistica. Parlo, quindi, di esperienze limitate nel tempo, dal mese al paio di anni. Il fatto di farne una scelta di vita è un percorso che sicuramente consiglio, ma occorre ponderarlo bene: si deve essere disposti a sacrifici familiari, essere in grado di ricominciare in un Paese diverso, essere molto flessibili in tutte le cose. Io ritengo di aver guadagnato parecchio, in termini di umanità e di apertura mentale. Nel lungo termine sono esperienze che pagano e lasciano il segno, ma alla fin fine è una vita da marinaio”.
Che idea ha del nostro sistema formativo in un confronto internazionale?
“Ritengo, in generale, che il nostro sistema formativo sia valido e che non abbia molto da invidiare a quelli di altri Paesi. Ci sono eccellenze da noi come da altre parti, così come cose da migliorare. Secondo me, non è tanto la formazione di base in discussione, piuttosto la formazione permanente: un concetto ancora non consolidato da noi, pensato per chi, anche in età matura, desidera aggiornarsi, riqualificarsi o seguire le tendenze del mercato lavorativo. Quando ho fatto il master Mba mi sono licenziato per seguirlo a tempo pieno. Avevo 30 anni e c’era un’altra situazione economica, ma l’investimento si è ripagato ampiamente. Oggi sarebbe una scelta ‘folle’, ma se le attuali strutture offrissero percorsi corrispondenti alle esigenze delle aziende e se si mettessero le aziende in condizioni tali di accogliere, sostenere e valutare gli allievi, molti dei problemi legati alla disoccupazione si potrebbero risolvere. È chiaro che per questo serve l’impegno di tutti, dalla politica alle strutture di formazione, alle aziende e a noi stessi manager, che abbiamo il dovere di contribuire a far crescere i collaboratori”.
Lei è stato fondatore di un Fogolâr: ha ancora senso un’istituzione del genere?
“L’esperienza del Fogolâr di Shanghai è stata assolutamente positiva. Abbiamo fatto molte cose insieme, ci siamo soprattutto ritrovati lontano da casa e abbiamo offerto sempre un’assistenza o un orientamento a chi veniva, per diversi motivi, a trovarci. Il tutto, però, è stato, ed è tuttora, frutto della buona volontà e impegno di chi dedica qualche ora del suo tempo a queste iniziative. In questo quadro, i Fogolârs possono sicuramente ritagliarsi un ruolo. Tuttavia, trattandosi di attività di volontariato e comunque non strutturata come un business vero e proprio, non abbiamo mai pensato di sostituirci a istituzioni più dedicate o organizzate. Da sempre penso che il ‘potenziale’ dei Fogolârs possa mettersi a disposizione e non in sostituzione di istituzioni quali Camere di Commercio, Confindustria o Consorzi allo scopo di agevolare percorsi di penetrazione commerciale oltre alla divulgazione dell’identità e della cultura del Friuli. Questi sono gli obiettivi condivisi con l’Ente Friuli nel Mondo, ma non è facile farli recepire alle istituzioni regionali”.
Il coordinamento tra i Fogolâr è adeguato?
“In questa fase di recessione e di ottimizzazione delle spese, l’Ente Friuli nel Mondo continua a essere presente ovunque e cresce, prova ne è l’espansione costante in tutti i continenti, ma non dispone della dotazione finanziaria adeguata per gestire completamente la galassia dei Fogolârs. I Fogolârs devono, quindi, sopravvivere con le loro forze, ma di fatto l’Ente rimane per i corregionali all’estero l’unico punto di riferimento e contatto autorevole con la regione. Ora, non valorizzare Friuli nel Mondo significherebbe perdere un patrimonio di contatti e conoscenze che è, sottolineo, un potenziale ancora poco sfruttato. Non dimentichiamo che parliamo di gente che ‘vive’ sul posto, non di viaggiatori una tantum. Un sistema così variegato in un’epoca di scarsità di risorse potrebbe vedere l’Ente inserito all’interno di una task-force istituzionale plurisettoriale chiamata a dare linfa e contenuti alla rete friulana all’estero con l’obiettivo di promuovere il Friuli e le sue eccellenze nel mondo. Con lo scopo, ancora, di aiutare e non surclassare”.