151
La democrazia non si misura in Pil. Ad affermarlo è il rappresentante degli oltre 230mila avvocati italiani, che dalla primavera dell’anno scorso risponde al nome dell’udinese Andrea Mascherin. Lui è ben cosciente che la sua categoria, costituita nella nostra regione da circa 2.500 professionisti, deve confrontarsi con un cambiamento imposto dai tempi e dalle tecnologie, ma deve farlo senza rinunciare ai ‘fondamentali’, ovvero al ruolo in difesa dei diritti che l’avvocato ha per sua natura costitutiva.
Non crede ci sia un eccesso di avvocati in Italia rispetto agli standard di altri Paesi occidentali?
“Le libere professioni e l’avvocatura in particolare sono sempre state considerate dalla politica quale serbatoio di occupazione solo apparente, perché creata a prescindere dal reddito reale che può generare. La politica, così, non si è mai preoccupata di individuare un percorso professionalizzante fin dentro l’università ed è per questo che proponiamo vengano introdotti tre indirizzi, rispettivamente verso la magistratura, il notariato e l’avvocatura, affinché la professione stessa sia una scelta consapevole fin dal percorso di studio. Questo dà garanzie non solo al professionista, ma anche all’utente, mettendogli a disposizione un avvocato capace e da subito competitivo sul mercato”.
E l’avvocato specialista che vantaggi può portare?
“Questa figura è un’opportunità in più non solo per il cliente, ma anche per i giovani professionisti che possono avere una carta in più per entrare nel mercato. Inoltre, consentirà di coprire certi settori in forte crescita negli ultimi anni, come quelli del diritto internazionale e informatico. La disciplina delle specializzazioni forensi è in attuazione della legge di riforma dell’ordinamento professionale e, al momento attuale, stanno per partire i corsi”.
In occasione del suo insediamento, lei ha detto che l’avvocatura deve impegnarsi per la ripresa sociale del Paese: cosa intende?
“I diritti fondamentali, come quello alla salute, all’istruzione, alla sicurezza e, appunto, il diritto di difesa, non possono essere oggetto di parametri economici, né di criteri di efficientismo assoluto. La politica deve rendersi conto che non si può risparmiare su questi diritti, magari inspirandosi a modelli nordamericani, perché così facendo penalizza la componente più debole della nostra società. Altra cosa è ottimizzare le risorse e ridurre gli sprechi, ma certi diritti vanno tutelati anche se appaiono anti-economici”.
Perché, allora, la giustizia rimane uno degli handicap della nostra competitività e frena gli investimenti esteri in Italia?
“La democrazia non si misura con il Pil. Piegare il nostro sistema giudiziario all’efficientismo economico può portare a processi meno garantiti a danno dell’interesse dei cittadini. Posso fare un parallelismo con il campo medico: riducendo per legge i tempi di un’operazione cardiochirurgica che effetti possiamo ottenere? E allora, meglio avere un processo giusto con risultati equi che uno rapido, ma che rischia di risultare iniquo. Non si tagliano i tempi, poi, penalizzando il ruolo dell’avvocato, ma investendo nell’organico di giudici, nell’amministrazione e in strumenti tecnologici oltre, ovviamente, a intervenire sui Codici in maniera organica e non schizofrenica. Nella classifica mondiale per attrattività degli investimenti siamo dietro a Paesi balcanici o africani? Beh, io non mi farei mai giudicare nei loro tribunali”.
Tempi e costi della giustizia, però, sono un problema concreto?
“È sbagliato confrontare direttamente i nostri tempi con quelli di altri sistemi giudiziari e, magari, intervenire, come fa il nostro legislatore, semplicemente importando modelli molto diversi dalla nostra cultura giuridica, come la class action o la mediazione obbligatoria, che possono essere senz’altro di utilità, ma vanno calati nella nostra storia e cultura giuridica. Spesso, poi, la politica si illude di poter fare riforme a costo zero, come nel caso del processo telematico, per il quale mancano computer, connessioni e formazione degli operatori”.
Perché ha chiesto ai suoi colleghi un cambio di marcia nel percorso di modernizzazione?
“Pur essendo una delle professioni più antiche, non siamo legati a schemi antichi. La storia dell’avvocatura, in fin dei conti, è fatta di conquiste di democrazia e libertà. Dobbiamo, però, adattarci a strumenti di corretta concorrenza in Italia e in Europa. Tra questi le specializzazioni, appunto, ma anche le nuove forme di organizzazione interdisciplinare degli studi e la valorizzazione dell’Ict”.
Anche le società di capitali?
“Ogni nuovo modello deve garantire l’indipendenza dell’avvocato dal proprio cliente. Quindi, le società di capitali vanno bene soltanto se i soci sono gli stessi professionisti e non se intervengono soci imprenditori, come banche o compagnie di assicurazione. Non si può fare business, o peggio lucro a tutti i costi, con la tutela dei diritti”.
Qual è il maggior pericolo che corriamo oggi?
“L’economia, ovvero le banche centrali, i fondi internazionali e le multinazionali, stanno cercando di controllare il diritto, dettando loro le regole, mentre deve essere esattamente il contrario. La grande battaglia oggi è proprio quella per riaffermare il diritto sull’economia e per recuperare un’etica negli affari”.
Come sono i rapporti con i ‘cugini’ notai?
“Ottimi. Siamo accomunati non solo da una formazione comune, ma anche dalla condivisione di tutela dei diritti fondamentali. Proprio la necessità di offrire servizi interdisciplinari ci sta portando a confrontarci anche con altri professionisti, come i commercialisti e i consulenti del lavoro, e questo percorso può creare inizialmente anche incomprensioni che, però, alla lunga sono sicuro saranno dipanate”.
State lavorando a un progetto per far sentire la vostra voce: può anticiparne i dettagli?
“Usciremo con un nuovo quotidiano, ‘Il Dubbio’, che debutterà a fine febbraio nelle edicole e on line e sarà diretto da Piero Sansonetti. Sarà un giornale generalista che intende contribuire a creare un nuovo rapporto tra Stato e cittadino, anche comunicando l’idea di una società e di una giustizia lontane dall’enfatizzazione e dalla spettacolarizzazione”.
Come si riesce a conquistare il vertice dell’Ordine pur rappresentando una piccola realtà di provincia?
“Questo, da presidente, rappresenta comunque il mio terzo mandato nel Consiglio nazionale forense. Credo che vada dato merito alla nostra istituzione l’aver saputo guardare non alla potenza di fuoco degli iscritti, ma all’affidabilità, concretezza e serietà che ho dimostrato da consigliere. Anche questa è una conferma che la nostra categoria ha saputo tenersi lontana da dinamiche politiche”.