I tributi devono essere considerati non solo un’indispensabile entrata per l’Erario, ma anche un valido strumento di sviluppo economico e sociale. Forse ce lo siamo dimenticati tutti, politici e contribuenti. A ricordarcelo è uno dei più prestigiosi tributaristi italiani, l’udinese Roberto Lunelli, recentemente confermato al vertice dell’associazione nazionale della categoria in qualità di vicepresidente vicario, che indica la strada da percorrere: già i primi passi potrebbero portare notevoli benefici al sistema imprenditoriale e all’auspicata crescita del Paese.
Qual è lo stato di salute dell’economia italiana?
“Nonostante tutto, è più forte di quello che appare: non solo in termini potenziali, ma anche reali come risulta dall’avanzo primario, tra i pochi positivi in Europa. Il nostro problema è il debito pubblico, ben oltre i duemila miliardi di euro, che non si può ridurre con provvedimenti legislativi o amministrativi, ma solo con un rinnovato impegno sociale, che valorizzi il merito, l’innovazione e l’efficienza. Quel debito, che genera interessi passivi enormi, si è incrementato a dismisura negli ultimi vent’anni, quando invece c’erano le condizioni per diminuirlo; ora non basterà una generazione ‘virtuosa’ per porvi rimedio, anche se fin da subito va elaborato un piano di rientro, che sia, peraltro, ragionevole”.
Quando gli imprenditori si lamentano dell’insostenibilità della pressione fiscale italiana hanno ragione?
“Purché rispettino le regole, hanno pienamente ragione: non solo perché la pressione tributaria e previdenziale italiana è maggiore di quella degli altri Paesi vicini, ma anche perché è accompagnata da rilevanti costi aziendali per gli adempimenti e, spesso, da rischi derivanti dall’incertezza sull’applicazione delle norme. Capita che, per pagare le imposte, il contribuente debba spendere molto di più in oneri amministrativi; e che, pur con le migliori intenzioni, si senta contestare comportamenti tenuti in assoluta buona fede”.
Perché dopo tanti anni non si trova una soluzione?
“Le ragioni sono molteplici. Non è facile, sia chiaro, trovare una soluzione valida che soddisfi, allo stesso tempo, le esigenze del contribuente e dell’Erario. Se, però, negli Anni ’80-90, come avevamo chiesto noi tributaristi, il legislatore, anziché intervenire con modifiche legislative continue e destabilizzanti, avesse proceduto a una vera riforma tributaria che tenesse conto dell’evoluzione dell’economia, non ci troveremmo nella situazione attuale”.
Come se ne esce, quindi?
“Bisogna agire su tre livelli. Il primo è quello legislativo: va tagliata in maniera drastica la pletora di norme, stratificate e spesso tra loro contraddittorie, per giungere a un Codice Fiscale unitario, come la Francia ha fatto già decenni fa. Eliminando il superfluo si avrebbero disposizioni più chiare e incisive; i precetti devono essere sintetici e di interpretazione univoca: ha presente i dieci comandamenti?
Il secondo è quello amministrativo, con la volontà di affrontare e risolvere il problema della burocrazia, sia in termini quantitativi, sia qualitativi. Va perseguita la semplificazione, ma con giudizio. Per esempio, l’unificazione dei vari Ministeri economici non ha dato buona prova di sé, non solo perché il Ministro dell’Economia e delle Finanze ha avuto, negli ultimi anni, un potere superiore a quello dello stesso Presidente del Consiglio, ma soprattutto perché manca quell’opportuno conflitto di interessi tra dare e avere che, in passato, aveva fatto bene all’economia.
In terzo livello è quello della giustizia. Per quella tributaria, è opportuno procedere, dopo vent’anni, a una revisione del processo per migliorarne l’efficienza, ma è necessaria e urgente la riforma degli organi giudicanti: il giudice tributario non può continuare a essere onorario e a tempo parziale, ma deve essere professionale e a tempo pieno. I costi? Per evitare aumenti, basterebbe affidare le cause tributarie di valore fino a 5.000 euro, cioè più della metà del totale, a giudici monocratici, mantenendo la composizione collegiale e mista per le cause di maggiore rilevanza. Il numero dei giudici, a questo punto professionali e a tempo pieno, potrebbe esser ridotto a un quarto”.
La classe dirigente è capace di operare una simile rivoluzione?
“Il nostro Paese è dotato di persone con una capacità creativa eccezionale, una buona tradizione culturale, una media propensione imprenditoriale, una scarsa propensione all’attività di gruppo. L’italiano è, per vocazione, un individualista e ha difficoltà a organizzarsi: di qui le eccellenze individuali, ma la scarsa competitività delle imprese nazionali sui mercati internazionali. Nonostante le antiche glorie, abbiamo difficoltà a ‘fare squadra’ e, quindi, a ottenere risultati che altri, magari meno dotati, conseguono. Basta pensare al settore turistico: con tutti i beni artistici di cui disponiamo, siamo al sesto posto nel mondo, con prospettive di ulteriore retrocessione”.
La crescita esponenziale della tassazione locale, negli ultimi decenni, quanto può essere pericolosa per il sistema economico?
“Non è che l’aumento della imposizione locale sia più pericoloso di un equivalente incremento della fiscalità nazionale: il fatto è che, al rilevante aumento, peraltro scomposto, della prima non ha corrisposto una riduzione della seconda. Manca, nonostante la presenza di organismi di raccordo, un coordinamento fra i diversi livelli di fiscalità. Ne deriva un’incidenza tributaria spesso insopportabile e, prima ancora, un disordine istituzionale che di certo non giova all’economia”.
Crede fattibile creare in Friuli aree a fiscalità agevolata, anche per poter resistere alla concorrenza di Austria e Slovenia nell’attrarre investimenti?
“La fiscalità agevolata deve fare i conti con il divieto degli aiuti di Stato previsto dall’Unione Europea, ma interventi temporanei e mirati vengono autorizzati con una certa frequenza, per cui è un’iniziativa praticabile, sia pure con la dovuta precauzione e attenzione. La concorrenza degli Stati vicini, comunque, si neutralizza, più ancora che con la fiscalità, con una maggiore efficienza dell’apparato amministrativo centrale e locale”.
Lei ha ‘respirato l’aria’ sia dei ministeri sia delle università; che idea si è fatto di questi due ambienti?
“È l’uomo, e sempre l’uomo, che caratterizza sia le organizzazioni, sia le istituzioni. Penso che ciascuno debba fare il proprio mestiere: certo che l’università potrebbe essere più propositiva e concreta; e che i Ministeri e, in generale, le varie strutture burocratiche potrebbero essere più disponibili ad ascoltare sia chi ‘studia per mestiere’, come gli accademici, sia gli operatori economici, ma è solo da uno sforzo collettivo, coordinato e coeso che può venire la spinta per uscire da questo periodo difficile e complesso, che si sta protraendo più del previsto. Fermo restando che le decisioni finali devono essere assunte da chi è stato democraticamente eletto dai cittadini: è solo da una volontà comune e coordinata che può venire quell’impulso di cui necessita il Paese”.
Esiste un Fisco dal volto (e dal cuore) umano?
“Il Fisco è un’astrazione: sono dirigenti e funzionari a configurarne le caratteristiche. Tutto dipende dalla loro intelligenza, preparazione ed equilibrio nell’applicare la legge. Non dovrebbero mai prescindere dal contesto e dall’esame del ‘caso specifico’ facendo buon uso di quella ‘discrezionalità tecnica’ di cui dispongono per evitare, nei limiti del possibile, contrasti e contenzioso”.
Agli imprenditori che le chiedono ‘come posso risparmiare sulle tasse’, cosa risponde?
“Che l’unico modo per conseguire un contenimento degli oneri tributari consiste nel razionalizzare la gestione, senza lasciarsi tentare da proposte che partendo da un lecito ‘risparmio d’imposta’ possono debordare nell’elusione o addirittura nell’evasione. Come per tutti i costi aziendali, anche i tributi, erariali o locali, vanno pianificati e opportunamente gestiti. Spesso sono oggettivamente troppo pesanti, ma ciò deriva anche da un’evasione che finora è stata contrastata più a parole che con i fatti, perseguendo più la forma che la sostanza, penalizzando gli errori dei contribuenti piuttosto che i ‘non contribuenti’. È stato detto che l’Italia è l’inferno per la ricchezza palese e il paradiso per l’economia sommersa e illegale”.
In politica si respira aria nuova?
“Il pendolo della politica è passato da un estremo all’altro: ai super-anziani, con esperienza ma anche rigidità e minore reattività, sono subentrati i super-giovani, vivaci ma talora non sufficientemente preparati per affrontare temi difficili e complessi. Anche perché la scuola e l’università, cui attribuisco grande importanza e responsabilità, sono formate, ormai, più da ‘professori’ che da ‘maestri’. Il processo di rinnovamento richiede fiducia, umiltà e tempi lunghi; solo un’osmosi tra vecchio e nuovo può consentire ai giovani di fare meglio di chi li ha preceduti”.
Infine, le tasse sono allora bellissime?
“I tributi sono necessari per assicurare la stessa presenza dello Stato, ma nell’economia moderna la fiscalità va utilizzata non solo per reperire risorse, ma anche come strumento strutturale e congiunturale per favorire e non deprimere lo sviluppo economico. La crescita assicura maggiori tributi e un sistema fiscale razionale e stabile garantisce competitività alle nostre imprese e attrattività a livello internazionale: può, dunque, contribuire alla tanto auspicata ripresa economica”.