Quando si parla con chi, all’indomani della seconda Guerra mondiale, dovette abbandonare la propria terra al di là dell’Adriatico e trovare qui un rifugio, colpiscono due stati d’animo, in qualche modo contrari. Da una parte, c’è il timore di essere ‘rimossi’, dimenticati. Dall’altra, il riserbo nel raccontare le vicende di quegli anni. Sentimenti che traspaiono dal colloquio con Giorgio Gorlato. Ex arbitro di serie A di basket, Cavaliere della Repubblica per meriti sportivi, Gorlato (che tiene a definirsi ‘istro-veneto’) arrivò a Udine nel ’44. “Mia mamma – racconta – era di Pontebba. Conobbe mio padre, di Dignano d’Istria (dove la sua famiglia viveva dal XV secolo), quando a lui fu assegnato un notariato in Friuli. Si sposarono e poi si trasferirono nel paese istriano, quando mio padre ottenne il trasferimento. Io e mia sorella siamo nati lì. Alla fine del ’44, per prudenza (i primi arrivi in Italia dall’Istria e dalla Dalmazia cominciarono all’indomani dell’8 settembre), mio padre ci mandò in Friuli. Lui restò per servizio. Nella notte del 5 maggio dell’anno successivo, fu portato via da alcuni partigiani. Sparì nel nulla. Non l’abbiamo più rivisto”.
Dove foste ospitati a Udine? E perché sceglieste questa città?
“Noi tre (allora avevo 5 anni) fummo alloggiati in viale Trieste, in una casa assieme ad altre due famiglie. Udine era il primo grande centro in Italia. Trieste era occupata e Gorizia era divisa a metà. Altri scelsero Venezia, la ‘città-madre’, altri ancora presero la via del mare e sbarcarono ad Ancona. Poi, gli esuli furono ‘dirottati’ in 140 campi in tutta Italia, anche se inizialmente si era pensato a tre destinazioni, così da non separare la comunità. Per opportunità politica, però, fu decisa la diaspora”.
Cosa vi dicevano gli altri italiani?
“O ci davano dei comunisti, o dei fascisti. Ricordo che quest’ultimo appellativo, detto a mio zio anche quando era a bordo del ‘treno della vergogna’ solo perché era di Pola, lo faceva impazzire, lui che era anarcosocialista”.
Che clima ha trovato in città?
“Un clima molto tollerante. Non mi sono mai sentito escluso, né dai miei compagni di classe dello Stellini, né da alcuni insegnanti che considero meravigliosi. Di qualche altro docente non posso dire altrettanto. Due cose, però, vanno sottolineate. Primo, che in tutti quegli anni non sono capitati fatti di cronaca nera attribuibili agli esuli italiani e che abbiamo contribuito alla ricostruzione. Secondo, il rammarico per una storia condivisa su ciò che accadde che ancora manca”.
C’è ancora un clima di paura tra gli esuli?
“Direi di sì. C’è la paura che, rivelando ciò che accadde, ci siano ritorsioni, sia di là per chi è tornato, sia di qua. La sede della nostra associazione è stata presa di mira più di una volta e alcuni anni fa è arrivata al nostro presidente, Silvio Cattalini, una lettera contenente polvere bianca. Il timore è che fosse antrace, poi si è scoperto che era borotalco”.
Cosa ‘brucia’ di più oggi, dopo tanti anni?
“Da una parte di aver perso la guerra due volte (i debiti di guerra con l’ex Yugoslavia furono ‘pagati’ con la nostra terra). Dall’altra, la sensazione di essere ‘rimossi’ dalla storia. In tante riviste turistiche, le capitali degli Stati dei Balcani sono indicati con i nomi italiani. I luoghi dell’Istria e della Dalmazia, pur avendo un nome italiano, sono per lo più indicati in altre lingue. Mi riferisco anche al fatto che, in alcuni libri storici, la nostra vicenda non viene toccata, o toccata en passant. Per esempio, in una pubblicazione per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, si parla della restituzione dell’Istria e della Dalmazia, quasi fossero colonie. Ma se eravamo lì da secoli!”.