Chi pensa che l’adozione di una maggiore tutela in Europa del Made in Italy porterà automaticamente a una crescita dei fatturati aziendali e del Pil nazionale rimarrà presto profondamente deluso. Il traguardo che si inizia a vedere all’orizzonte, in attesa che la Commissione Europea traduca in norma quanto indicato dal Parlamento di Strasburgo, è soltanto uno strumento aggiuntivo rispetto a una strategia di crescita economica, aziendale e territoriale, che si ha o non si ha. Potrà, indubbiamente, difendere meglio i nostri prodotti dalla contraffazione, oppure penalizzare finalmente qualche azienda furbetta che in Italia appone solo il marchio, salvo produrre tutto nei Paesi a basso costo della manodopera.
La partita, però, si gioca con altri strumenti. In ballo c’è una torta di consumi enorme, una domanda mondiale che continua a crescere proprio nella fascia medio-alta di mercato, quella in cui, appunto, il Made in Italy da sempre ha ampie capacità di esprimersi. Pensare, però, che quella semplice dicitura possa, automaticamente, generare una fila di buyer alla porta della propria fabbrica è quanto di più illusorio. Presto, quindi, il pescatore friulano avrà soltanto una lenza in più: vada a pescare.
L’obbligo della denominazione d’origine nel mercato Europeo è un risultato storico, ma guai a considerarlo lo strumento per aumentare l’export e conquistare nuovi mercati. Il ‘made in’, infatti, è una garanzia per il consumatore, non per il produttore. Ci vuole ben altro, che Armando Branchini, vicepresidente della Fondazione Altagamma, riassume in ‘export management’, una disciplina, prima di tutto culturale, che in Italia è ancora poco conosciuta e ancora meno applicata.
Il termine sembra diventato un mantra: cosa vale la pena oggi di definire Made in Italy?
“L’indicazione dell’origine, come è nelle intenzioni della normativa europea che, finalmente, dopo anni è avviata sulla strada dell’adozione, vuole essere una tutela nei confronti del consumatore finale affinché sappia dove avviene la fase produttiva prevalente di un prodotto. Quindi, il Made in Italy non può essere considerato da un produttore locale come lo strumento fondamentale per aumentare le proprie esportazioni e conquistare nuovi mercato extraeuropei. Le leve della competitività sono ben altre”.
Quindi, non sarà mai la soluzione ai nostri handicap?
“In Italia nel corso dei decenni e a causa di nefasti populismi demagogici, proliferati in assenza di una politica industriale, siamo riusciti a introdurre false certezze. Una è che ‘piccolo è bello’: se il bambino col passare degli anni rimane piccolo, è un nano e il nanismo è una patologia. L’altra è che il Made in Italy è la marca di chi non ha una propria marca: è la speranza degli sfigati. La Ferrari viene comprata in tutto il mondo perché è Ferrari, non perché è fatta in Italia.
Questa cultura sbagliata ha drammaticamente impoverito le strategie aziendali”.
Qual è, allora, lo scopo della norma europea per la quale anche voi vi siete battuti?
“Lo scopo è quello di rendere trasparente la filiera produttiva, con l’indicazione del luogo in cui viene attribuito il maggior valore al prodotto. È un principio che esiste in tutto il mondo, negli Usa da quasi un secolo. In un solo mercato era finora assente, l’Europa appunto, in cui l’interesse di alcuni Paesi a forte valenza mercantile oltre che manifatturiera, come la Germania, lo ha sempre tenuto al bando”.
Quali sono, allora, le vere armi da utilizzare?
“Esistono tre regole fondamentali. La prima è avere un prodotto distintivo, diverso da quello degli altri; il principio di differenziazione, purtroppo, non appartiene al bagaglio culturale della media degli imprenditori, tant’è che guardando alle produzioni, per esempio, dei distretti vediamo che i modelli si assomigliano tutti e imitano quelli di maggior successo.
La seconda regola è avere un nome riconoscibile: è il marchio aziendale, infatti, la vera indicazione del valore aggiunto che può attirare il consumatore finale.
Per renderlo riconoscibile, però, ed è la terza regola, serve un marketing che crei visibilità. In un mercato globale questa azione richiede sempre maggiori investimenti ed è per questo che è sostenibile da grandi aziende oppure da reti o grappoli di imprese che si mettono assieme, uniscono le rispettive eccellenze, non le rispettive debolezze, con un unico catalogo e marchio”.
Sembra di capire che, purtroppo, sono regole poco adottate nel tessuto di Pmi?
“Nel nostro Paese è conosciuta da pochi e applicata da molti meno una disciplina oggi fondamentale: l’export management. È ancora troppo diffusa la leggenda metropolitana secondo cui, per avere successo nelle esportazioni, sia sufficiente sviluppare oltrefrontiera il modello adottato nel mercato nazionale, oppure che sia un diritto che qualcun altro, leggi lo Stato, deve garantire. Esportare è molto più difficile che vendere nel proprio Paese e nel mercato globale, con un centinaio di Paesi target, quelli più attrattivi sono anche quelli più competitivi, dove è difficile entrare e difficile rimanere”.
Una Pmi, quindi, come può aprire le porte dell’estero?
“La cosa più facile è agganciarsi al traino di una nave ammiraglia. È una cosa abbastanza diffusa nel settore dei prodotti e impianti industriali, oppure delle costruzioni, dove le grandi aziende italiane riescono a trascinare all’estero anche le più piccole. Oppure nella moda, in cui un’azienda con prodotti che risultano complementari a un marchio già rinomato deve cercare accordi con esso per ampliarne il catalogo.
Quando questo non è possibile, allora, o si rassegna a coltivare bene il mercato domestico europeo, oppure partecipa a reti o grappoli di imprese per fare massa critica, applicare le tre regole prima citate, sviluppando una rete distributiva e commerciale che oggi può solo essere omni-channel”.