A parte i molti contributi scientifici, anche sui media quotidiani la parola ‘organizzazione’ viene utilizzata costantemente per sottolinearne l’importanza nelle istituzioni, nelle imprese, nelle stesse attività associative e nel non profit. Infatti, come ricordava Leavitt: l’organizzazione serve alle persone normali per compiere azioni eccellenti.
Lo si vede nelle attività produttive e anche nelle occasioni di disastri naturali, dove la motivazione e la capacità organizzativa degli uomini e delle istituzioni di base (dai Comuni alla Protezione Civile) possono fare la differenza.
Tuttavia un’organizzazione – fatta di persone, di risorse e di procedure – non è neutrale né astorica, ma dipende dal contesto collettivo e soprattutto consiste in una molteplicità di aspetti che si influenzano reciprocamente.
In un celebre lavoro di vari anni fa, Morgan descrisse 8 metafore dell’organizzazione, cioè varie chiavi di lettura che, ad esempio, in un’azienda, in un ospedale o in una scuola possono fornire un contributo interpretativo e applicativo concreto, spesso mixato ad hoc.
Dalla concezione dell’organizzazione come sistema di potere (come negarlo?) a quella che ne sottolinea le caratteristiche di sistema culturale, che a sua volta può permettere di generare sorprendentemente autorganizzazione in casi di difficoltà o generare flussi di attività economiche specifiche e misurabili. La stessa originaria interpretazione di un’organizzazione quale sistema gerarchico-tayloristico è certo superata per molti aspetti, ma in determinati contesti (come in una sala chirurgica) mantiene una certa sua logica.
Etica e pragmatismo
Insomma, occorre che i leader affrontino le situazioni in modo etico ma pragmatico (‘ad-hoc-crazia’) considerando – dice sempre Morgan – che le organizzazioni sono in realtà “fenomeni complessi, ambigui e paradossali”.
Noi consulenti di management lo sappiamo bene e lo vediamo in particolare nei processi decisionali delle aziende: processi non di rado orientati in modo eccessivamente ‘emotivo’ anche in quei supposti ‘templi della razionalità’.
Occorre dunque tener conto lucidamente dei vari fattori, attuare una leadership partecipativa e alleanze (no si fâs di bessoi) utilizzando i giusti strumenti manageriali per ridurre i rischi di superficialità e inefficacia.
Fare meglio con meno
Ovviamente non si può generalizzare: anche in Friuli esistono imprese ben organizzate e competitive, altre che dipendono da fattori specifici (la fase del settore o il ruolo dell’imprenditore-motore) e altre ancora che – soprattutto oggi – sono alla ricerca di nuove strade. Insomma noi consulenti di management vediamo di tutto… ma purtroppo anche certi errori che si ripetono in aziende ‘insospettabili’.
Dopo la falcidia provocata dalla recessione post 2008 (in Friuli-Venezia Giulia ancora non superata), molte imprese profit stanno modificando il loro impianto e anche varie realtà del non profit (come le cooperative sociali) devono affrontare le nuove sfide organizzative portate dalla riforma del Dlgs 117/17. E le stesse pubbliche amministrazioni devono saper ‘fare meglio con meno’.
Su tutte gravano i paradigmi della complessità e della globalizzazione, le tecnologie ‘disruptive’, i paletti della sostenibilità e l’incertezza del business.
In particolare le nostre micro e piccole imprese – artigiane, agricole e di servizi – devono saper costruire reti collaborative e valorizzare il proprio capitale intellettuale.
Tutto ciò reclama una visione ma anche una cultura manageriale (possibilmente arricchita dall’umanesimo) rifuggendo l’autosufficienza presuntuosa. Allora quali strumenti gestionali proponiamo alle nostre piccole imprese per migliorarne le capacità competitive?
Generatore di qualità
Anzitutto ogni processo aziendale deve generare qualità, perciò occorre metodo, a cui i consulenti di management possono fornire un contributo rilevante. Un business plan anche semplice con pochi concreti obiettivi, un controllo di gestione agile sui costi-ricavi e processi operativi misurabili (possibilmente certificati Iso, Efqm, Emas), un piano di marketing off e online adeguato ai vari canali. E non dimentichiamo lo stile relazionale interpersonale, che oggi –ahimè – vediamo sottovalutato da molti.
Ovviamente le tecnologie oggi sono indispensabili (anche l’artigiano è digitale), ma vanno calibrate realisticamente: l’innovazione non è nuovismo. E il 4.0 a volte viene mitizzato. Inoltre occhio aperto su possibili ‘oceani blu’, cioè su nuovi potenziali redditizi business.
Domanda cruciale
Ma quale sistema organizzativo è oggi preferibile nelle Pmi? La risposta è necessariamente complessa perché storicamente le micro e piccole imprese esprimono una multiformità organizzativa (si pensi ai distretti/cluster manifatturieri, dove coesistono cooperazione, competizione e coevoluzione) e molto soggettivismo creativo. Ma almeno una risposta concreta già c’è: la creatività non significa disordine, la flessibilità non è ‘cumbinìn’. Perciò meno improvvisazione e più misurazione razionale, perché ciò che non è misurabile non è migliorabile.
Punto della situazione
Recentemente sono stato coinvolto in un gruppo di lavoro tra giovani consulenti friulani e veneti per valutare cosa le più attuali teorie organizzative e manageriali possono imparare dalle precedenti.
Ne ho anzitutto sintetizzato un breve excursus storico in occidente:
* la scuola classica (inizi ’900 – Taylor, Fayol);
* la scuola delle relazioni umane (dopo il 1930 – Mayo, Linkert);
* la scuola delle risorse umane (dagli Anni ’50 – Mc Gregor, Maslow, Herzberg);
* la scuola sistemica (dagli Anni ’70 – Watzlawick, Ansoff, Porter) e la creatività (De Bono);
* la società della conoscenza e il post capitalismo (Drucker);
* l’organizzazione proattiva e l’impresa post-imprenditoriale (Morgan, Moss Kanter) dai primi anni Duemila.
Anche nelle società ‘socialiste’ c’erano state forme organizzative virtualmente interessanti (l’autogestione operaia) ma su presupposti politico-economici che non hanno funzionato nel tempo.
Ciascuna di queste teorie/tappe ha generato soluzioni, spesso in modo ‘aggiuntivo’ più che ‘sostitutivo’: si pensi alle 8 metafore di Morgan che suggeriscono una lettura pragmatica e non assoluta.
Nulla è come prima
Ma la Grande Crisi capitalistica scoppiata nel 2008 e i relativi cambiamenti di paradigma costituiscono uno spartiacque: oggi non ci può essere business as usual.
Ecco alcuni filoni nuovi: Chaotics (Kotler, 2009), Il valore condiviso (Porter, 2011), La buona azienda (Moss Kanter, 2012) e lo humanistic management 2.0 di oggi fatto di empowerment e autoimprenditività, smart working e digitalizzazione del business, etica, responsabilità sociale e intangibles.
Oggi nelle imprese for profit, ma anche nelle organizzazioni non profit e nella pubblica amministrazione ci muoviamo tra fattori quali complessità, scarsità delle risorse e democrazia del valore condiviso. L’obiettivo è costruire un’economia civile inserita in una società policontributiva, sobria ed ecosostenibile. Certo restano anche i conflitti di classe e di interesse, ma oggi molti attori possono (dovrebbero) potenzialmente offrire una mano in senso più responsabile.
Questo comporta una multiformità organizzativa ma soprattutto la capacità di fare rete generando qualità.
Neotaylorismo digitale
A queste caratteristiche le tecnologie digitali forniscono nuove opportunità ma anche minacce ai ‘mestieri’ storici e alla stessa coesione sociale. In particolare emergono le cosiddette ‘organizzazioni esponenziali’ (come Google) dai contorni inusitati, altre con quasi solo collaboratori freelance (come Foodora) e praticamente senza asset (tutto a noleggio) ma con crescite velocissime. Perciò anche contro il rischio di neotaylorismo digitale occorre favorire la capacità critica e la creatività delle persone ritarando i flussi gerarchici e le stesse strutture organizzative in una logica di corresponsabilità e leadership partecipativa.