Una sentenza che crea un precedente importante in merito alla gestione dell’immigrazione. Il riferimento è alla decisione della Corte d’Appello del Tribunale di Trieste rispetto a un migrante del Gambia che puntava al riconoscimento dello status di rifugiato e si era dichiarato gay. L’omosessualità nel suo Paese è considerata un reato, punito severamente con anni di galera.
I giudici d’Appello, esaminando il caso, hanno valutato che non sia necessario indagare su quale sia l’effettivo orientamento sessuale del soggetto richiedente asilo, essendo sufficiente il modo in cui lo stesso viene percepito nel Paese d’origine a renderlo idoneo a divenire fonte di persecuzione. Il migrante, oggi 23enne, era arrivato in Italia tre anni fa e aveva dichiarato di essere gay nel momento in cui aveva fatto richiesta d’asilo. Né la Commissione di Gorizia né il Tribunale di Trieste, però, gli avevano creduto, pensando che avesse mentito solo per avere lo status di rifugiato.
La Corte d’Appello, invece, ha accolto il suo ricorso, stabilendo, appunto, che non sia necessario verificare quali siano realmente i suoi gusti.
LA STORIA. Il richiedente ha raccontato alla commissione territoriale isontina di provenire da Birikama, in Gambia, e di avere potuto frequentare solo un mese di scuola; è stato costretto ad abbandonare gli studi e, a dieci anni, ha iniziato a lavorare come saldatore. “Ho avuto tre rapporti sessuali con un collega e vicino di casa, che poi è stato arrestato”, ha raccontato il 23enne. “Alla Polizia, l’uomo aveva fatto il mio nome e così sono fuggito dal Paese, grazie all’aiuto di mio fratello, temendo di essere a mia volta incarcerato”.
Il viaggio ha fatto tappa prima in Senegal e poi in Libia, dove il giovane ha lavorato per otto mesi alle dipendenze di un uomo che aveva conosciuto mentre ancora viveva in Gambia. “In quel periodo ho conosciuto il figlio del mio datore di lavoro, ma il padre era contrario a questa frequentazione, perché aveva sentito dire che ero omosessuale e non voleva che influenzassi il ragazzo. Così – prosegue il racconto del gambiano – mi ha cacciato senza paga, affidandomi a un trafficante suo amico perché mi portasse in Italia via nave”.
L’elemento essenziale ai fini della decisione della causa, insomma, è costituito dal fatto che, al di là del reale orientamento sessuale, il giovane era effettivamente additato nella sua comunità di appartenenza come gay e quindi rischierebbe di essere incarcerato, con una pena fino a 14 anni.
Il caso è l’ultimo di una lunga serie, tenendo conto che chi dichiara di essere gay non dice sempre la verità. E’ stato appurato, infatti, che alcuni immigrati si inventavano storie – come non avere più una famiglia in Patria o essere sotto tiro del Governo di turno – pur di ottenere l’idoneità.
La versione che ultimamente sta dilagando è proprio quella di dichiararsi omosessuale e di provenire da uno dei tanti Paesi islamici (africani o mediorientali) dove si applica la shaaria, che prevede il carcere o addirittura la pena capitale per i gay.
Nelle Marche, in passato, gli operatori deputati all’accoglienza dei migranti avevano evidenziato che c’era stato un boom di ‘outing‘: quasi tutti i richiedenti asilo, nel presentare la domanda, avevano dichiarato di essere omosessuali. Prendere posizione o decidere rispetto all’orientamento sessuale è sempre molto delicato. Sicuramente c’è qualcuno che dice il vero, ma anche altri che ci marciano.