Non so definire il Futuro, ma so che i friulani hanno dovuto immaginarselo più di una volta nel corso del Novecento. In che modo? Da onesti lavoratori che non vogliono strafare e per non disturbare si accontentano, come diceva il giornalista Renzo Valente, oppure prendendo quello che serve e fa bene?
Alcuni udinesi nel 1911, ad esempio, avevano immaginato di poter entrare nel nuovo secolo alla grande. Questo era lo spirito delle Belle Époque in tante città italiane ed europee da quando la borghesia era diventata élite pensante e macchina di danaro, e Udine non era da meno. Dalla fine dell’Ottocento aveva dotazioni importanti, l’elettricità, uno snodo ferroviario di primo livello, ma soprattutto era polo manifatturiero con una industria del ferro e una produzione di filati in piena attività. Insomma, città artigianale, operaia, dei servizi, della finanza, con 46.000 abitanti compresi quelli dei borghi agricoli, tant’è che l’architetto Raimondo D’Aronco il 5 marzo 1911 nel progetto definitivo per la sede del Comune aveva scritto: “è un edificio ambizioso, anzi ‘audace’, perché è segno tangibile di prosperità dell’industria, dell’agricoltura, delle arti”. Insomma, il palazzo nasceva dalla convinzione che il progresso non si sarebbe fermato, nonostante segnali di crisi. Prendiamo il raccolto dei bozzoli. Nel 1910 i risultati erano stati negativi e l’economia ne aveva risentito. Anche le fabbriche stavano perdendo fette di mercato per la stasi del settore cotoniero e metallurgico, ma il sistema bancario aveva retto, dunque si poteva andare avanti.
Cosa significava, allora, prosperità? Nelle intenzioni era organizzazione finanziaria, sperimentazione di materiali e tecniche, strada aperta all’intelligenza della meccanica. A guardarlo nei dettagli costruttivi e delle decorazioni questo palazzo ne è proprio il racconto: ferro, cemento, pietra artificiale e sulle quattro facciate figure, citazioni, bassorilievi, araldi della corsa nella seconda rivoluzione industriale, ma una corsa che guarda anche indietro pensando di aver ereditato i passi compiuti dall’umanità con la protezione degli dèi. C’è da immaginarsi le discussioni in cantiere tra D’Aronco e i maestri scalpellini, con il dovuto rispetto per la loro inventiva: sul lato di via Rialto le arti protette dalla città, sulle altre facciate qualcosa di più monumentale. E gli eventi di cronaca vera che dicevano come si fa a conquistare lo spazio del cielo e la velocità sulla terra? Ci stavano, perché nessuno poteva dimenticare quel concittadino avventuroso, che nel 1904, tra increduli e curiosi, si era alzato con una mongolfiera da piazza Primo Maggio per atterrare indenne a Faedis, e neppure tutte le quattro ruote dei veicoli passati e futuri, pronti a scaricare, trasportare, persino correre con l’elettricità. Lo si scolpisse nella pietra, dunque. Ma siccome l’intelligenza stava anche nello spirito della Storia, D’Aronco aveva pensato che la facciata principale e quella di via Cavour potessero accogliere volti e figure mitologiche tra scene di cura domestica e di vita agreste dove più macchine che uomini mostravano l’energia che serve per distillare, spremere, trasformare i frutti della terra.
Però, serviva anche un simbolo forte per il nuovo secolo. Ci avrebbe pensato lo scultore Aurelio Mistruzzi nel 1915 con il gruppo marmoreo dedicato alla vittoria del lavoro nei campi e nelle officine. Vittoria con la V maiuscola, ovviamente.
Giorni fa in una Udine ritirata e deserta per la pandemia pensavo a questa narrazione trionfale e alla sua breve corsa in un secolo che si è fatto conoscere più per la fatica che per la prosperità. Due guerre mondiali, quattro generazioni per ricostruire il distrutto, crisi economiche che hanno annullano gli sforzi e, oggi, uno sviluppo traballante con lo spettro di nuove povertà e diseguaglianze. Andandosene il Novecento ci ha lasciati vulnerabili nei corpi e arroganti nei consumi, con molti dubbi su una certa idea di prosperità. Sì, un conto con cifre in rosso importanti.
Il nuovo secolo, però, ci sta offrendo la possibilità di essere di nuovo artisti del nostro futuro. Come si dice da noi: non c’è un male che non sia un bene, quindi abbiamo nuove opzioni. Ma c’è una domanda che dobbiamo porre a noi stessi e alla macchina che si propone costruttrice di territorio, relazioni, esperienza prima di rimetterci al lavoro: dovendo cambiare valori e modelli, cosa siamo disposti a sacrificare e a quale generazione vogliamo dare la precedenza?