Nulla di fatto dall’incontro Governo-sindacati in merito alla questione previdenziale inserita nel ddl Bilancio che ha appena iniziato la discussione al Senato. Molte erano le aspettative, soprattutto da parte delle persone nate nell’anno 1960 che per pochi mesi non potranno accedere a “quota 100” in scadenza a fine anno e in un solo giorno dal 31/12/2021 al 1/1/2022 si vedranno la data del pensionamento spostata in avanti di due anni.
Per essere più realistici non è che da questo confronto in extremis ci si aspettasse molto. Il Governo a più riprese da quando si è insediato ha sempre messo al primo posto le politiche attive del lavoro, anche a causa della disastrosa situazione legata al Covid, e, nonostante la necessità di intervenire per eliminare lo scalone di cinque anni da 62 a 67 anni che si sarebbe creato da gennaio 2022, ha sempre tergiversato sull’argomento. Era suo intendimento, cosa che poi si è puntualmente verificata, inserire alcuni provvedimenti all’interno della legge di bilancio e rimandare la questione al 2022. Ha sempre rifiutato di approfondire con i sindacati la problematica previdenziale, limitandosi a un paio di incontri interlocutori e aspettando i risultati della Commissione Lavoro della Camera che, con un ponderoso e analitico lavoro, ha implementato i mestieri gravosi dalle precedenti 65 categorie a ben 203.
Poi nella legge di bilancio 2022 – da approvare entro il 31 dicembre – ha inserito la quota 102 (64 anni di età sommati a 38 di contributi) per ammorbidire lo scalone di cinque anni portandolo a tre; ha confermato Opzione Donna (58 anni di età per le lavoratrici dipendenti e 59 per le autonome + 35 anni di contributi) accettando, però, il calcolo contributivo con taglio secco dell’assegno intorno al 30%; ha implementato di alcune categorie di lavoratori l’accesso all’Ape Sociale; ha esteso i contratti di espansione, che sono uno strumento per favorire il ricambio generazionale delle aziende con costi a carico delle aziende stesse, anche per realtà di 50 unità di personale e ha, infine, istituito un fondo di 550 milioni di euro in tre anni per accompagnare al pensionamento lavoratori almeno 62enni che operano in piccole aziende che hanno dichiarato lo stato di crisi.
L’incontro Governo/sindacati che doveva essere decisivo si è rivelato praticamente un nulla di fatto. Draghi alla presenza anche dei Ministri Franco, Orlando e Brunetta ha comunicato che già a partire dal mese di dicembre inizieranno i confronti in ambito tecnico che poi, all’inizio del 2022, saranno approfonditi per arrivare a una proposta equilibrata e il più possibile condivisa che sarà inserita nel Def nel mese di aprile 2022. Ha anche affermato che già nella legge di bilancio 2022 potrebbero essere inserite piccole modifiche ma che i fondi a disposizione non permettono, per quest’anno, di poter fare di più, dando un contentino alle forze sociali coinvolgendoli nelle prossime settimane in incontri in merito alla destinazione dei famosi otto miliardi di euro per abbassare le tasse agli italiani.
In questo modo Draghi ha ottenuto quello che si era prefissato, ha disinnescato la mina dello sciopero generale che i sindacati avevano minacciato e che, in prossimità delle feste natalizie, avrebbe avuto pesanti conseguenze, rimandando il tutto al prossimo anno. Con l’incertezza che incombe sul suo futuro prossimo, diviso tra il più probabile prolungamento del lavoro a Palazzo Chigi fino alle elezioni del 2023 e completamento del lavoro sul Recovery Plan e la possibilità di diventare Presidente della Repubblica con il rischio di possibili elezioni anticipate che renderebbero il futuro previdenziale molto nebuloso.
Rubrica a cura di Mauro Marino, esperto di economia e pensioni