Si ricomincia, lentamente, a parlare di pensioni e rispuntano le varie ipotesi di flessibilità in uscita per superare la rigidità imposta dalla legge Fornero, concepita in un periodo storico/economico non più attuale.
Sembra strano sentire parlare di riforma previdenziale con l’inflazione che viaggia al 7%, lo spread a 230 punti e il debito pubblico che non accenna minimamente a diminuire, ma questo contesto è stato determinato dal combinato di due situazioni assolutamente imprevedibili ed eccezionali, vale a dire la pandemia, che ha sconvolto il mondo intero e che solo in Italia ha causato oltre 167.000 decessi, e una guerra nel cuore dell’Europa per la quale ancora non si vede una soluzione.
La concomitanza di questi due fattori sta determinando una situazione economica esplosiva e preoccupante ma quando queste due situazioni termineranno si tornerà in pochi mesi a una crescita.
È necessario, pertanto, provvedere a varare le riforme della giustizia, del fisco e della previdenza che, assieme ai fondi del Pnrr, porteranno l’Italia fuori dalle secche in cui si trova in questo momento.
Sulla previdenza alcuni parlano di flessibilità in uscita a partire dai 63/64 anni e assegno erogato in due fasi, la prima conteggiando solo il contributivo per poi, dai 67 anni, ottenere anche la parte di retributivo; altri ipotizzano un’uscita a 64 anni e conteggio totalmente retributivo, altri ancora uscita a 64 anni e taglio del 3% annuo solo sulla parte retributiva.
Sono tutte ipotesi possibili, ma abbastanza dispendiose. E’ necessario pensare in modo completamente diverso, concedendo un’amplissima discrezionalità al lavoratore, con una flessibilità in uscita che parta dai 62 anni per arrivare fino a 70.
È un’idea rivoluzionaria ma di facile attuazione e con costi limitatissimi. Innanzitutto, è necessario spostare l’età del pensionamento ordinario da 67 a 66 anni, riducendolo di un anno in seguito alla diminuzione dell’aspettativa di vita conseguente ai decessi da Covid. Poi, consentire a partire dai 62 anni a chi possiede almeno 20 anni di anzianità contributiva la possibilità di uscire dal mondo del lavoro con una lieve penalizzazione dell’1,5% annuo. Uscendo a 65 anni, si avrebbe una penalizzazione dell’1,5% annuo, a 64 anni del 3%, a 63 anni del 4,5% e a 62 anni del 6%. Unica condizione che l’assegno previdenziale sia almeno 1,7 volte la pensione sociale e, quindi, non sia più bassa di 780 euro mensili. Questo costo per lo Stato di uscita anticipata sarebbe compensato dalla possibilità di rimanere nel mondo del lavoro fino a 70 anni, conseguendo un incremento dell’1,5% anno a partire dai 67 anni. A 68 anni l’incremento sarebbe del 3%, a 69 anni del 4,5% e al raggiungimento dei 70 anni si otterrebbe il beneficio massimo del 6%.
Se solo un quarto delle persone decidessero di rimanere nel mondo del lavoro oltre il pensionamento ordinario, il costo della riforma sarebbe bassissimo perché compenserebbe, almeno in parte, il costo delle uscite anticipate che, essendo anche lievemente penalizzate, in pratica si azzererebbe. Consentire la massima flessibilità in uscita con i soli tre paletti dei 62 anni di età, 20 anni di contributi e almeno 780 euro mensili sarebbe un modo d’intendere il lavoro e la previdenza completamente nuovo. Darebbe a ogni lavoratore la possibilità di scegliersi il proprio futuro, impostando a suo piacimento le proprie scelte di vita.
Consentire, inoltre, il pensionamento a chi possiede 41 anni di contribuzione, uomini e donne indipendentemente dall’età e senza alcuna penalizzazione, sarebbe il giusto riconoscimento a chi ha svolto una vita di lavoro e il costo per lo Stato sarebbe, a causa dei numeri sempre più limitati, molto minore rispetto a quello che si vorrebbe far credere.
Rubrica a cura di Mauro Marino, esperto di economia e pensioni