Dimenticate i quasi 50 mila spettatori per i Pink Floyd e gli Ac/Dc allo Stadio Friuli, i 40-45 mila per Bon Jovi, Coldplay e Metallica e i 35 mila per Springsteen, ma anche i 30 mila per i Pearl Jam a Trieste, i 10-15 mila per Iron Maiden, Radiohead e Rammstein a Villa Manin, ma anche i sold out ripetuti, dal capoluogo friulano alle località del turismo estivo, per Vasco Rossi, Ligabue, Tiziano Ferro… Il 2021, per ora, è fermo alla casella dello ‘zero’: il numero di concerti finora realizzati.
Peggio del 2020, giudicato disastroso, ma con cifre quasi miracolose rispetto al presente. Certi numeri non li vedremo più anche per la mancanza di spazi adeguati e una disaffezione (pre-Covid) del pubblico friulano, che ha costretto gli organizzatori a spostarsi altrove. Come Loris Tramontin, patròn di Azalea, che per quasi 30 anni ha portato le grandi stelle in una piccola regione. E che già prima del lockdown aveva scelto il Veneto per la migliore risposta del pubblico ad eventi anche di piccole-medie dimensioni.
“Pensa – racconta dal suo ufficio, che non ha mai abbandonato, continuando a spostare date fino alla primavera ’22 e ad immaginare un futuro possibile – che a Treviso lavoro in una location da 80mila persone, più grande di San Siro. Al di là dell’emergenza, qui è difficile lavorare”.
In tutta onestà: torneranno i tempi del Friuli capitale dei grandi eventi?
“Dopo la costruzione del nuovo stadio a Udine, è finita. Abbiamo location troppo piccole per grandi eventi e i big costano sempre di più. Quando ho portato i Pearl Jam a Trieste, costavano 800mila euro e mi hanno dato del matto, ma l’anno dopo li hanno pagati 4 milioni! Per Bon Jovi, data unica nazionale, il costo era di 1 milione: oggi girano a 5,5. Continuo l’elenco?”.
C’è qualche auspicio – mi scuso subito per il termine – ‘positivo’ per il futuro?
“Resistiamo. Non sono positivo, ma fiducioso. Sono fermo dal 10 ottobre, quando a Udine ho organizzato la seconda di due date con Elisa, visto che nel frattempo erano cambiate le regole. Ecco: quando c’è qualche rogna, vengono tutti da me… Comunque, l’obiettivo è aspettare che, finita la terza ondata, si possa ripartire da giugno, in qualche modo. L’ideale sarebbe una capienza al 50%, altrimenti dovremo fare come la scorsa estate”.
Guardando ai dati 2020, non sono stati poi così brutti!
“No, lo scorso anno non è stato perso del tutto: dal 25 luglio al 10 ottobre ho organizzato una trentina di eventi contingentati, tutti tra mille e 2 mila presenze ‘distanziate’. Avevo deciso di non fermarmi per non danneggiare tutto l’indotto e chi lavora a un live, ma forse avrei guadagnato di più senza concerti, fatturando zero”.
Intanto in Europa hanno già annullato da mesi tutti i festival estivi…
“Sì, perché un concerto da 20 mila persone in piedi non sarà fattibile almeno fino all’autunno. Però voglio essere realista: se e quando ci daranno l’Ok, inizieremo, magari con mille spettatori, 2.500 nel caso migliore. I luoghi ci sono: Udine, Palmanova, Majano… Ho anche già parecchi nomi buoni, ma non voglio anticiparli: tutti artisti che hanno voglia di lavorare, sia italiani che stranieri. Non dimentichiamo che dal 21 giugno l’Inghilterra sarà ‘libera’ e anche gli Usa: le date già fissate, poi rimandate, poi risistemate per il 2021, in teoria si faranno”.
La scorsa estate si era detto ‘solo artisti italiani’, ma molti avevano deciso di fermarsi comunque. Una scelta che ha pagato?
“Per molti, 1.000 biglietti non sono un guadagno sufficiente. Potevano fare 20-30 serate al posto di una, per aiutare il pubblico, invece hanno detto di no. Farli venire è stato faticoso, quest’anno meno, ma non a ‘prezzi Covid’: i cachet restano alti e chiedono tutto. Non fanno di certo beneficenza per chi lavora nel mondo della musica, ma per se stessi: vogliono i loro soldi e non sono a buon prezzo”.
La domanda è spontanea: chi ve lo fa fare?
“Già. Se pensiamo che oltre al cachet dell’artista, c’è il 50% sull’incasso, il palco completo, l’albergo per tutto lo staff, i trasferimenti… In più, non c’è la sicurezza di poter lavorare: con il coprifuoco, i concerti non li puoi fare. Per un’impresa commerciale come la mia è più difficile. Senza calcolare l’indotto legato ai movimenti degli spettatori, io dò anche lavoro a una marea di tecnici, esperti di sicurezza, facchini, ecc. Sono tutti fermi e, se non hanno partita Iva, non vedono un euro da mesi: sono centinaia e vivono senza il più piccolo sussidio. Mica come i teatri, che non hanno licenziato nessuno, né usato la cassa integrazione, perché tanto hanno i fondi ministeriali: un sacco di soldi”.