Un lavoro fortemente europeo, professionale anche se apparentemente ‘casalingo’ e con atmosfere che potrebbero essere scambiate – lingua esclusa – per quelle di un esponente dell’elettronica nordica o del dream pop britannico. Invece, Massimo Silverio ha vissuto la maggior parte della sua vita tra le montagne della Carnia e usa la sua marilenghe per raccontare storie di isolamento e placida melanconia. Dopo aver pubblicato un anno fa ‘Ø’ (presentato in un tour europeo pre-pandemico), è uscito il gemello ‘O’, il secondo Ep, la ‘parte 2’ di un viaggio che unisce musica moderna, canto popolare e poesia con un’espressività unica, originale, fuori dal tempo e dagli schemi. Una specie d’incontro, per cercare di fissare dei paletti, tra il Lino Straulino delle origini, il Nick Cave più oscuro, l’Alan Sorrenti sperimentale di Aria e l’elettronica fredda, minimal e cinematica dei vari Apparat, Trentemøller, ecc.
Cinque i brani della produzione firmata dal cantautore e polistrumentista assieme a Leo Virgili e Nicholas Remondino. Sin dall’iniziale Criure l’atmosfera è quella di una Carnia gelida non da cartolina né stereotipata, dove il cantautorato è decostruito fra suoni elettronici, acustici e post-rock. E il folk, dove c’è, è rarefatto e/o apocalittico. Dopo una parentesi se possibile ancora più ombrosa nei brani intitolati semplicemente I e II, Silverio – che usa poche parole e ancor meno acrobazie compositive, perché in questi tempi di caos il silenzio è d’oro – ripropone Nijo, scritta e arrangiata con un trio gallese femminile, Adwaith. A chiudere il lavoro, di nuovo in friulano (anzi, carnico), la title track: una suite di 10 minuti che è un inno a una terra scura, dura, selvaggia – o, con una sola parola, essenziale -, dove i sussurri della sua voce che copre le rarefatte atmosfere elettroniche sono l’unica forma di luce possibile.