E’ uno dei pochi al mondo – assieme a Roberto Baggio – ad aver messo d’accordo juventini, milanisti e interisti. Giovanni Trapattoni, classe 1939, per tutti il ‘Trap’, giovedì sera ha regalato un vero show a Pordenonelegge. Assieme al giornalista Bruno Longhi, amico di vecchia data, ha presentato il libro che hanno scritto assieme ‘Non dire gatto – La mia vita sempre in campo, tra calci e fischi’ (Rizzoli). In pratica, la storia del Trap condensata in 300 pagine, ricche di aneddoti e curiosità. Il 17, giorno di uscita nazionale del libro, è il suo numero fortunato, visto che è nato il 17 marzo e con la Juve ha conquistato lo scudetto numero 17 al suo primo anno di panchina.
Il titolo dell’autobiografia deriva dalla sua famosissima frase ‘non dire gatto se non ce l’hai nel sacco’, pronunciata durante un’intervista proprio a Longhi, nell’anno dell’Inter, in riferimento al possibile scudetto nel testa a testa con la Sampdoria. “Frase che – ricorda il giornalista – è finita anche in alcuni film americani”.
Il duo, davanti a una platea entusiasta, ha ripercorso la vita del giocatore e allenatore, che ha vestito al maglia del Milan, agli ordini del mitico Nereo Rocco, per poi diventare il mister italiano più vincente sulle panchine di Juventus, Inter, Bayern Monaco, Salisburgo e Benfica. Trapattoni, come suo solito, ha ammaliato a modo suo gli spettatori, mentre Longhi lo punzecchiava invitandolo a raccontare alcuni retroscena. Come il fatto che, nella sua vita, i tedeschi hanno sempre centrato qualcosa. Dai soldati invasori quando era piccolo, ai tre tedeschi dell’Inter dei record, fino alla mitica conferenza al Bayern dove se la prendeva con Strunz. Un tormentone che è diventato leggenda tra gli appassionati di calcio.
Ma soprattutto il Trap ha regalato tanti ricordi.
Strunz!
Ricorda Longhi. “Un giorno Giovanni, che allenava a Monaco, mi chiama e mi dice: “Hai le cineprese? Perché oggi faccio un casino’. In effetti fu una conferenza memorabile con il suo attacco al giocatore Strunz, nome che per noi italiani aveva un significato particolare, e anche ad altri. Alla fine di quel discorso, che finì pure sulle magliette di mezzo mondo che vendettero tantissimo, il Trap disse: Ich habe fertig. Che tradotto alla lettera è: io ho finito. Ma in tedesco equivale a: io sono finito. Ecco perché questa frase è finita tra le frase celebri negli Usa assieme al ‘I have a dream‘ di Martin Luther King”.
Il Trap rincara: “Strunz continuava a sbagliare in campo, a non fare quello che gli dicevo, per cui mi arrabbiai molto. Lo stesso vale per alcuni altri giocatori. Per via del mio tedesco, per il quale avevo cercato di studiare al meglio, venne fuori quella conferenza storica”.
Le firme fuori tempo
“Quando la Juventus mi cercò per la prima volta, avevo appena firmato per l’Atalanta. L’Avvocato Agnelli mi convocò e mi disse che ci avrebbe pensato lui. Poco dopo, mi chiamò per dirmi che il presidente dell’Atalanta non aveva nulla in contrario a liberarmi”. Un’altra firma mancata, anni dopo, con il suo Milan: “Mi chiama Berlusconi per affidarmi la panchina, ma io avevo firmato qualche giorno prima con l’Inter di Pellegrini. Avevo già dato la mano e non potevo tirarmi indietro. A Berlusconi consigliai un collega che stava facendo bene al Parma: Arrigo Sacchi. E’ andata bene a tutti. Il Milan diventò super e io vinsi al primo colpo lo scudetto numero 13 con l’Inter”.
La finale di Atene
“Difficile dire se ad Atene nella finale di Coppa dei Campioni tra l’Amburgo di Ernst Happel, allenatore che conoscevo e stimavo, e la mia Juve potesse finire diversamente dall’1-0 per loro. Io andai a vederli giocare per tre volte, cosa che non avevo mai fatto prima. Erano fortissimi, una schiacciasassi. Dopo l’ultima visita in Germania, mi confrontati con Boniperti e gli dissi che a mio parere, per arginare la loro strapotenza sulle fasce, era meglio giocare con una punta e irrobustire il centrocampo. Ma chi lasciare fuori? L’indiziato era Bettega. Boniperti mi disse che secondo lui era folle non far giocare chi aveva contribuito a farci arrivare in finale e aggiunse: ‘Se lo lasci fuori e perdiamo, non torniamo a Torino, ci bombardano l’aereo. Ma l’allenatore sei tu e devi decidere tu’. In fondo, pensai che il dovere della riconoscenza era più importante. Giocò e perdemmo, pazienza”.
I suoi ragazzi
Il Trap ha ricordato molti dei suoi giocatori e il rapporto che si era creato. “Platini era un ragazzo sensibilissimo, molto diverso da come appariva all’esterno. E molto intelligente, tanto che credo diventerà presidente della Fifa. Soffriva molto prima delle partite, per cui me lo ritrovavo a girare per le stanze dell’albergo a piedi nudi fino a tarda ora. Con la sigaretta in bocca, per giunta. Gli dicevo: ‘va a dormire e non fumare’. Lui rispondeva che era teso perché tutti si aspettavano il massimo da lui. Quanto al fumo, replicava: ‘Io non devo correre, lo dica a Furino che ha bisogno di fiato’.
Rapporto speciale anche con Matthaus. “Era una forza della natura, ma doveva contenersi ed essere più disciplinato. Un giorno, dopo un rimprovero in spogliatoio, è scoppiato a piangere. Allora l’ho abbracciato e consolato. Poteva fare tutto in campo. Io gli parlavo di schemi, avvertendolo sulla forza degli avversari e lui ribatteva, battendosi il petto: “Mister, loro forti. Noi più forti!”
E come non ricordare la testa calda Edmundo alla Fiorentina? ‘Un giorno mi dice che deve andare al Carnevale di Rio, perché lui è il capo rione. Eravamo in testa al campionato con 7 punti di vantaggio e gli diedi il permesso. Solo che il giorno della partenza, Batistuta si ruppe il tendine d’Achille. Il brasiliano, finita la partita, filò in aeroporto. Presi la macchina e lo raggiunsi, cercando fino alla fine di tirarlo giù dall’aereo. Mi guardò e mi disse: “Mister, io capo rione’. Salì e prese il volo”.
Non è stato il solo caso di rapporto complicato. “Io ho sempre avuto molta pazienza, ho passato ore a parlare con i giocatori, anche con Cassano. Ma alcuni sono così, gli scatta una molla ed è come se scoppiasse una bomba a orologeria”.
Le nazionali
Trapattoni ha guidato l’Italia e l’Irlanda, dove è stato immortalato nei cartelloni stradali come fosse il Papa, senza troppa fortuna. “Purtroppo ai Mondiali in Corea nel 2002 un certo arbitro Moreno ci stoppò la strada. L’acqua santa che usavo? Ho avuto una sorella suora. Nel 2004 agli Europei fu un ‘biscotto’ tra Svezia e Danimarca a farci fuori. Con l’Irlanda pagammo un braccio malandrino di Henry. Peccato. Il calcio è più quello che mi ha dato che quanto tolto”.
L’erede
“Chi può essere il Trap di domani? Credo che mi somigli molto Cesare Prandelli. In lui mi rivedo abbastanza. Anche Antonio Conte ha qualcosa di mio. Non a caso sono due giocatori che ho allenato e con i quali ho passato molto tempo a parlare”.
Gli autografi e la maglia del Pordenone
A fine presentazione, dopo che alcuni giocatori del Pordenone Calcio gli hanno consegnato una maglia neroverde numero 6 con il nome Trap, tutti in fila, libro alla mano, per l’autografo e la foto. Non è bastata mezzora per smaltire la fila di tifosi. Juventini, interisti e milanisti assieme, senza litigare. Cose da Trap.