La salita lascia la pianura nei pressi della città di Prilep in Macedonia del Nord, si erge con violenza sfoggiando pendenze da pista da sci. Si sale in verticale e sembra che ogni metro guadagnato in altezza si scrolli di dosso un po’ di umanità. Sono pochi chilometri ma sufficienti per provare un vago senso di purificazione, un’ascesa verso il Creatore. Al termine di settemila metri di asfalto, si raggiunge il monastero di Treskavec, una preziosità del mondo ortodosso. Lo si intravede qualche chilometro prima di raggiungerlo: un nido d’aquila sormontato dalle rocce quasi disneyane dello Zlatovrv.
Una pace assoluta domina l’ambiente, rotta di tanto in tanto dalle voci degli operai giunti quassù per restaurare questo capolavoro del dodicesimo secolo.
Serve un attimo di respiro, vanno prese le misure per dominare i sensi soggetti a un assalto di esuberanza. Gli occhi si riempiono di una scena che fa pensare che non ci sia un luogo al mondo dove la comunione con Dio possa essere più proficua. A occidente, l’orizzonte è dominato da una muraglia di monti che pare altissima. Tra il monastero e quell’onda montana, si stende il lembo settentrionale della pianura Pelagonia che si srotola verso Sud fino a penetrare in territorio greco; uno scampolo di terra giallognola e assetata nei torridi mesi estivi. Il sole la trafigge con bianche lance di luce dopo aver bucato con facilità brandelli di nubi turgide e candide.
Le impalcature che incerottano il monastero e la chiesa di Sveti Bogorodica che ne rappresenta il cuore religioso, non impediscono di apprezzare i dettagli in stile bizantino.
C’è un gatto che fa capolino in cerca di attenzioni mentre d’istinto si cerca di fermare su carta emozioni che forse sulla carta non possono essere trattenute perché le parole a volte non bastano. Ma il felino rimane lì fiducioso che una carezza prima o poi arriverà e, dopo il primo contatto, decide di seguire il forestiero per tutta la visita.
Ci si fa largo nell’insolito nartece esterno tra le precarie assi di legno per raggiungere quella che un tempo era la stanza delle confessioni. Qui si trova un affresco che raffigura i due anziani finanziatori della costruzione della chiesa con il modello della stessa tra le loro mani; una scena tipica dipinta in diverse chiese coeve. I loro grandi occhi sembrano emanare tutta la soddisfazione per il risultato ottenuto.
Sulla destra del nartece interno si cerca invano l’affresco che rappresenta Cristo da ragazzo, ma una copertura sorretta da pali di legno azzera l’entusiasmo generato dalla possibilità di osservare un’immagine piuttosto rara (ma per fortuna vista pochi giorni prima nella chiesa di Sveta Eleusa nei pressi di Strumica, Macedonia del Nord).
Con il gatto al fianco, si entra nella navata principale, scura ma non troppo. Tra iconostasi e affreschi del Sedicesimo secolo che ricoprono la cupola e le pareti si rimane ammutoliti. Si scruta l’ambiente circostante alla ricerca di scene bibliche familiari, apostoli e scritte in glagolitico o cirillico. I volti delle figure umane, ammantate di una lucentezza verdastra, denotano uno stile più macedone che greco.
Si odono le voci di un paio di operai all’esterno e per un attimo è come tornare indietro di secoli quando artisti di prim’ordine pennellavano le pareti della chiesa. Poco importa che siano impegnati nel sistemare aree esterne alla chiesa e che, con buona probabilità, saranno destinate ad ospitare monaci e visitatori.
Il tempo, al cospetto di tutta quest’arte, scorre in maniera diversa, e quando si esce il sole si è già fatto più docile e le nubi sembrano tutte dirette verso gli impervi massicci albanesi.
Degli operai non c’è più traccia, si rimane in compagnia del gatto che termina il suo turno da accompagnatore accovacciandosi su una roccia per godersi lo spettacolo della pianura vista da quassù.
Un ultimo colpetto di brezza fresca e poi ci si tuffa nuovamente nel mondo laico tra la modernità in salsa macedone.
Paolo Zambon è l’autore di due libri “Inseguendo le ombre dei colibrì” e “Viaggio in Oman”