Camminare per rallentare, camminare per immergersi nel paesaggio, camminare per assorbire tutti i dettagli. In un mondo ossessionato dalla velocità, un tentativo di ritorno alle origini forzando il rallentamento. Una specie di indagine privata, intima, lenta con il solo scopo di osservare e orecchiare tutto ciò che l’ambiente circostante ha da offrire.
Per agevolare la marcia, un carretto da trainare costruito ad hoc per trasportare l’occorrente per i due mesi e mezzo di viaggio, senza affaticare troppo spalle e schiena.
Il giorno della partenza, domenica, un cielo plumbeo dal quale si sgretolano gocce finissime che non spaventano, tiene compagnia. Periferia meridionale di Taipei, un capannone dove nei giorni feriali si lavano le auto, funge da base di partenza. Un fazzoletto di cemento separato dal traffico infernale dove poter riassemblare il biroccino fatto in casa. I dubbi assalgono il cervello pur preparato da mesi al momento della partenza.
Domande sullo stato fisico, sull’affidabilità del carretto, sulla reale capacità di godere della montagna di dettagli che da lì a qualche minuto inizieranno a picchiettare il cervello.
Il carretto è montato, le due fibbie che lo collegano all’imbragatura sono fissate. Non resta che muovere i primi passi. L’impressione di imparare a camminare per la seconda volta è forte. Per un momento ci si isola per trovare il ritmo e verificare che quell’estensione di alluminio su cui poggiano tutti i pochi beni necessari, non crei problemi.
Una strana euforia prende il sopravvento quando gli occhi smettono di concentrarsi sui piedi e sul carretto e iniziano a registrare l’ambiente circostante. Non si fanno più di cento passi che l’immersione nell’ambiente diventa totale. Il traffico, le insegne colorate tempestate di caratteri cinesi, i volti sbigottiti e dubbiosi, la miriade di dettagli architettonici tutt’altro che graziosi ma al tempo stesso affascinanti. Fin da subito il coinvolgimento nel viaggio è tangibile. In un’epoca dove lo sforzo di osservare è reso minimo dalla presenza di guide di ogni tipo, dove i telefonini di ultima generazione attirano su di loro l’attenzione, quei primi passi in lentezza fanno presagire una lunga serie di visite minuziose; d’un tratto sembra di avvicinare lo stile dei viaggiatori d’un tempo.
La strada, delimitata da palazzi che mostrano i segni di un’umidità implacabile, corre in un fondovalle che si dilata e si restringe come una fisarmonica. I templi buddisti e taoisti con i loro colori scandiscono il percorso come tappe di una via crucis in salsa asiatica. Le cromie sgargianti dei luoghi religiosi contrastano con il bianco di alcuni palazzoni enormi piantati su colli boscosi che visti dal basso paiono gigantesche zollette di zucchero. Il camminare getta luce anche sulla popolazione, i sorrisi, gli abiti, i gesti e le abitudini vengono messe a fuoco con grande precisione.
Due offerte di passaggio in pochissimi chilometri fanno pensare a un popolo squisito e ospitale (impressione confermata nelle settimane successive). La totale assenza di titubanza nel rifiutare con garbo, nasce da una riserva di fiducia che cresce all’aumentare dei passi.
Quando giunge un tratto di salita i quadricipiti lavorano a ritmo serrato, il battito cardiaco sale d’intensità e il respiro si fa più corto. Ma l’aumento della fatica provoca una gioia bizzarra che si manifesta sotto forma di sorriso estasiato. La cima del colle regala un tramonto dai colori strazianti che chiudono una giornata che sancisce la religiosità dell’arte del camminare. Pioggia e dubbi sono svaniti in compagnia del sole, che il periplo dell’isola di Taiwan abbia inizio.
*Paolo Zambon è l’autore di due libri editi da Alpine Studio “Inseguendo le ombre dei colibrì’ e “Viaggio in Oman”