La road map tracciata da Matteo Renzi durante l’ultima direzione Pd, appellandosi ad un pantheon che spazia da Napolitano a Cantonà, ci condurrà a quel referendum di ottobre che già si prefigura snodo della legislatura, se non addirittura della stessa carriera politica del premier. Se la vittoria del “no” porterà certamente a elezioni anticipate, non si può nemmeno escludere che tale scenario si verifichi anche in caso contrario, permettendo a Renzi di sfruttare la vittoria per consolidare la propria leadership e rafforzare i numeri in Parlamento.
Un’ipotesi, quella della fine precoce della legislatura, che si ripercuoterebbe inevitabilmente sui partiti minori che oggi sostengono il Governo – la cui sopravvivenza sarebbe vincolata a un necessario riposizionamento nell’arco costituzionale – ma che coinvolgerebbe anche un centrodestra rivitalizzato dalla recente tornata amministrativa, soprattutto in Fvg. Una doppia Waterloo, registrata a Trieste e Pordenone, che ha sì indebolito il Pd sotto il profilo del consenso ma soprattutto ne ha palesato la fragilità in termini di capacità di sintesi tra le sue diverse anime: debolezze sui cui il nuovo centrodestra a forte trazione leghista potrà fare leva in vista delle prossime regionali, riportando in seno ai partiti tradizionali quel voto civico che ha largamente contribuito al successo di Dipiazza e Ciriani ma che non ha invece premiato Tondo nel 2013.
Presto per le previsioni. Si può tuttavia supporre che – forte del voto compatto del centrodestra, a dispetto di qualche sporadica strizzata d’occhio a un nuovo patto del Nazareno (congettura peraltro prontamente smentita dall’entourage di Berlusconi), e del Movimento 5 Stelle – il successo del fronte del “no” non rappresenti poi una prospettiva così remota.
Ma l’appuntamento di ottobre non è l’unica scadenza in agenda.Il voto del 23 giugno nel Regno Unito ha infatti aperto nuovi scenari sul fronte europeo, dai quali naturalmente l’Italia – fondatrice della Comunità – non può sicuramente astrarsi.
Al netto della propaganda mediatica sui nefasti effetti del Brexit , tanto oltremanica che sul continente – tutti da verificare peraltro, e posto che in oltre 40 anni di non-storia d’amore tra Londra e Bruxelles sono stati maggiori i distinguo delle convergenze – il punto focale dell’esito referendario, specie se sommato alla crescita esponenziale delle formazioni euroscettiche registrato negli ultimi anni, riguarda il futuro stesso dell’Unione.
Un’Europa debole non è detto che non serva a nessuno, ma di certo non giova ai cittadini. Ecco perché siamo al cospetto di un’enorme opportunità, forse l’ultima, per rilanciare il progetto di una casa comune, fondandolo non più sui potentati ma sulla condivisione di strategie politiche ed economiche, prime su tutte la tassazione unica e la politica estera. Se invece, contravvenendo agli insegnamenti di Plinio il Giovane, anziché contare i voti si stabilisse di pesarli, assegnando maggior credito alla finanza e alle singole lobby invece che ai popoli, il futuro sarebbe già ineluttabilmente segnato.