Il 26 aprile 1986 lo ricordano in molti. Trent’anni prima, all’1.23 della notte, il blocco 4 dell’impianto di Chernobyl, fu teatro del più disastroso incidente mai accaduto a un impianto nucleare. Per avere notizia del disastro della centrale che sorge in Ucraina a poca distanza dal confine con la Bielorussia (allora ancora appartenenti all’Unione Sovietica) bisognerà attendere la mattinata del giorno successivo, quando nel reattore svedese di Forsmark, i lavoratori in ingresso fecero scattare i sistemi di allarme che avevano rilevato materiale radioattivo sui loro indumenti.
La nube carica di radiazioni si spinse verso il Nord Europa per poi scendere fino alle nostre latitudini, colpendo Austria, Svizzera e il Nord dell’Italia, con concentrazioni elevate, superiori ai 37 kBq (kilobecquerel) al metro quadrato in tre aree distinte, tra Lombardia, Veneto e Friuli Venezia Giulia. Il fall out era stato favorito da precipitazioni piovose che avevano avuto il demerito di far posare a terra le polveri radioattive. In regione si registrarono picchi fino a 100 kBq al metro quadrato nel Tarvisiano, più precisamente nella Val Resia e nell’area montana a ridosso di Maniago. Man mano che si diffusero le notizie sulla grave situazione in Ucraina, il panico dilagò in molti Paesi occidentali facendo scattare le prime misure di sicurezza.
Le tracce del disastro
Molti ricorderanno gli allarmi sui giornali e in televisione di quei giorni, l’invito a non raccogliere i prodotti dell’orto, a tenere ben chiuse porte e finestre, ad evitare i giochi all’aperto per i bambini e, nei mesi successivi a non consumare funghi raccolti nei boschi, perché i terreni risultavano contaminati. Di quel terribile incidente restano poche tracce in Friuli Venezia Giulia. Secondo gli esperti che in questi anni hanno monitorato i terreni, i radionuclidi, in particolare il cesio 137 (c’erano anche Iodio 131, Stronzio 90, Rutenio 106, Zirconio 94) isotopo che si forma come sottoprodotto della fissione dell’uranio, nel tempo sono scesi in profondità nel terreno e non rappresentano più un pericolo concreto, anche perché l’emivita del cesio, ovvero il tempo che la particella impiega per ridurre del 50% la sua radioattività, è di 30,17 anni.
Pensando a Krsko
Nella nostra regione la soglia di sensibilità resta piuttosto alta, per il semplice motivo che a 180 chilometri di distanza è in funzione il reattore della centrale slovena di Krsko, che sorge in area fortemente sismica tanto che negli anni scorsi un pool di scienziati ha messo in guardia le autorità regionali sulle possibili conseguenze di un sisma di forte intensità in termini di fughe radioattive, nonostante i sistemi di sicurezza siano stati implementati.