Il design è una cosa seria. Ce lo ha ripetuto spesso Werther Toffoloni che con le sue realizzazioni è stato uno dei protagonisti del successo del Triangolo della sedia.
Nato a Udine nel 1930, Toffoloni ha messo, fin dall’inizio della carriera, la sua creatività al servizio dell’industria manzanese che nel periodo della ricostruzione post bellica era impegnata ad affermarsi sul mercato estero. Verso la metà degli Anni ’50 crea con Piero Palange lo Studio TiPi a Cormons, dove la cultura del progetto si affianca all’attenzione per la nuova struttura della grafica pubblicitaria, della fotografia e della promozione.
Lei è stato protagonista sotto molti punti di vista dell’epoca d’oro del Triangolo della Sedia. Quale fu la chiave del successo allora e cosa andrebbe fatto oggi per rilanciare il settore?
“Il successo del Triangolo della sedia e mio personale sono solo in parte correlati. Ho sicuramente contribuito alla crescita di questo distretto, ma le condizioni erano del tutto particolari. Si trattò di meravigliosa alchimia fatta di idee e di capacità di produrle”.
Potrà riproporsi questa situazione?
“Deve per forza. Questo è soltanto l’inizio. Il design nel Triangolo della sedia entrò dalla porta principale pur non ottenendo subito grandi risultati. Allora la sedia si produceva non sulla base di esigenze estetiche, ma per far fronte agli ordini di un mercato che chiedeva sedie senza badare al loro disegno. Andava bene tutto, l’importante era costruire sedie ben fatte.
La crescita del Triangolo non fu quindi dovuto al design, ma alla capacità dei seggiolai di costruire bene e a prezzi competitivi. Quando arrivarono i mobilieri brianzoli o americani che, oltre a pretendere qualità e prezzo, chiedevano anche il design, entrammo in gioco noi designer”.
Poi è arrivata la grande crisi. Come si può recuperare?
“Il mercato della sedia è diventato molto più competitivo prima di tutto per l’avvento della plastica e del metallo che hanno tolto di fatto al Manzanese gran parte degli spazi sul mercato attuale. Eppure, fin dal momento in cui si notarono i primi cambiamenti, era impossibile non cogliere alcuni segnali importanti: per continuare a produrre sedie in legno serve alta qualità.
Non parlo solo di disegno, ma di qualità della produzione e del modo di comunicare. Su quest’ultimo versante siamo molto in ritardo. Finora si è investito molto sui materiali, ma si fatica a farlo per la comunicazione. Servono cataloghi molto curati, belle fotografie, partecipazione a mostre ed esposizioni di alto livello, gente capace di mostrare i prodotti e di spiegarli”.
Legno e Triangolo della sedia sono dunque indissolubilmente legati. Ritiene che questo binomio possa dare ancora frutti?
“Non esiste al mondo un luogo come il Manzanese, capace di industrializzare il prodotto legno. Basta ricordare ciò che Thonet tanti anni addietro ha saputo proporre: aveva capito si poteva industrializzare il prodotto basato sul legno, ricorrendo a soluzioni tecniche d’avanguardia. Oggi dobbiamo ripercorre quell’esperienza, pur con altre forme e sistemi, industrializzando un prodotto di alto livello. I nuovi materiali hanno occupato il mercato grazie agli enormi investimenti fatti dalle aziende. Nel settore del legno dobbiamo fare altrettanto, investendo per esempio sulle nuove macchine per la lavorazione”.
Sembra difficile immaginare che si possano fare investimenti tanto importanti in tempi di crisi come questi.
“Si tratta di usare meglio le risorse che abbiamo a disposizione. Anziché disperde i fondi in mille iniziative, sarebbe utile indirizzare le risorse per investire proprio sull’innovazione e sulla comunicazione, con iniziative mirate e ben confezionate”.
Lei fu tra i convinti sostenitori dell’apertura di un istituto professionale a San Giovanni, convinto com’era dell’importanza della formazione. Ritiene che oggi sia sufficiente quanto offerto ai giovani?
“Serve molto altro. La scuola va ripresa in mano e riformata. Lasciai un istituto che formava i ragazzi senza tuttavia avere ben presente quali fossero le figure professionali richieste. Oggi le esigenze delle aziende sono chiare: chi esce con il diploma deve saper usare un computer, conoscere i metodi produttivi e dovrebbe anche essere capace di comunicare le valenze del prodotto. Se ci limitiamo al nozionismo e non comprendiamo che serve personale docente altamente specializzato, è difficile sperare che la situazione cambi”.
Anche per le aziende la formazione può essere un investimento strategico?
“Spesso mi chiamano imprenditori per chiedermi se conosco qualche giovane capace di usare i nuovi macchinari. I moderni mezzi di produzione hanno bisogno di gente preparata. E poi servono figure capaci di affrontare il mercato. Tanti magnifici progetti restano nel cassetto perché l’azienda non è in grado di commercializzarli”.
Com’è cambiato negli anni il rapporto tra industria e designer e, soprattutto, continua?
“Sì, ma in maniera disordinata. E’ un problema anche culturale. Troppo spesso la ricerca nel design, spiace dirlo, si risolve nel tentativo di stupire con soluzioni inverosimili. Manca insomma la capacità di capire che non si deve per forza puntare alla realizzazione di prodotti originali ad ogni costo. Il design è una cosa seria, che tiene conto della tradizione e di tutto il processo produttivo capace di portare a un oggetto commerciabile”.
E’ anche un problema di cultura dell’impresa e della capacità di immaginare il prodotto?
“E’ evidente. Le capacità per realizzare le sedie le abbiamo, ma troppo spesso abbiamo preferito lavorare per conto terzi. Penso a quando i brianzoli arrivavano a Manzano con i disegni già pronti. Bisogna fare uno sforzo in più per andare oltre la semplice capacità produttiva”.
Qual è stato il cambiamento più sostanziale visto in questi ultimi 50 anni nelle nostre case?
“La varietà e la versatilità dei prodotti nel rispondere alle esigenze più disparate. Abbiamo a disposizione una varietà di prodotti appena pochi anni addietro inimmaginabile. L’evoluzione della sedia è paradigmatico: che si tratti di arredamento domestico o di altro è diventato un vero e proprio simbolo, diventando un modo per raccontare l’intelligenza e la cultura di chi la adopera”.
Si può parlare di via friulana al design?
“No. Accontentiamoci di aprire una strada semplice e chiara da percorrere: abbiamo la possibilità di realizzare le sedie in legno più belle del mondo. Bisogna avere però il coraggio di rispettare poche regole e comunicare bene cosa facciamo. Chi sostiene artigiani e industriali farebbe però bene a pretendere che i fondi concessi siano spesi per risolvere le problematiche del settore smettendola di dare soldi senza sapere come sono spesi. E’ inutile, per esempio, finanziare la partecipazione a una fiera qualsiasi senza sapere se è la più adatta o se gli spazi acquistati sono quelli giusti. Bisogna affidarsi a qualcuno che sappia dove e come posizionarsi, avendo ben presente che la partecipazione a un salone costa molto e non è certo il momento migliore per buttare via i soldi. Comprendo che non è semplice, ma bisogna provarci”.
Qual è stata finora la realizzazione alla quale è più legato e perché?
“Sono affezionato ad ogni progetto. Mi viene tuttavia in mente l’esperienza recente fatta con un’azienda di piccole dimensioni che, mal consigliata, proponeva prodotti inguardabili. Con un lavoro paziente di messa a punto e proponendo realizzazioni di qualità, l’azienda è riuscita a produrre cose giuste, capaci di trovare spazio sui loro mercati di riferimento”.
Le tre caratteristiche che giudica essenziali per una sedia di successo?
“La serietà del prodotto: la sedia deve essere comoda, non si deve rompere e non deve avere pretese assurde. E’ inoltre importante che il disegno tenga conto dei gusti attuali, salvo che non si voglia avviare un redesign della storia. Sto pensando assieme ad alcuni mie colleghi alla riproposta delle vecchie sedie friulane, sulla falsa riga di quanto fece Magistretti con la Marocca. Ci sono mille possibilità: nel campo dell’arredamento non esiste altro oggetto che possa essere rappresentato in un’infinità di forme come appunto la sedia. La terza caratteristica è legata all’utilizzo: se so dove viene usata mi comporto di conseguenza e propongo un disegno adeguato”.
Giovani friulani capaci di raccogliere il suo testimone?
“Probabilmente ci sono. Molti di quelli che ho incontrato fanno parte della corrente ‘famolo strano’ e cercano a tutti i costi di stupire. Temo tuttavia che più che istruire i ragazzi, sia importante istruire gli insegnanti. Serve la conoscenza dei perché. Bisogna con modestia chiedersi a cosa serve un prodotto. Un consiglio lo do volentieri: vivete la realtà dell’azienda ed evitate di proporre cose astratte senza conoscere le reali necessità tecniche, commerciali e culturali”.
Alessandro Di Giusto
19 febbraio 2013