La storia lo conosce come l’uomo che ha rivoluzionato lo studio dell’archeologia, del mondo antico e dell’arte. Johann Joachim Winckelmann, sostenitore di un’arte basata sull’armonia, assertore della supremazia dell’arte greca, ma anche soprintendente alle antichità di Roma, autore del saggio ‘Pensieri sull’imitazione delle opere greche in pittura e scultura’, fondamentale per lo sviluppo del Neoclassicismo, e della fondamentale ‘Storia dell’arte nell’antichità’, finì i suoi giorni tragicamente a Trieste, esattamente 250 anni fa: l’8 giugno 1768. E la sua morte è ancora avvolta nel mistero, al punto da essere diventata oggetto di studi, documentari e opere di narrativa.
La versione accreditata: l’archeologo è morto per mano di un pregiudicato, in una stanza della Locanda Grande in piazza San Pietro. In attesa di recarsi a Roma, di ritorno da un viaggio in Germania e alla Corte di Vienna, dove aveva incontrato il Consigliere von Kaunitz e l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, dal 1° giugno alloggiava alla locanda, in una camera accanto a quella di Francesco Arcangeli, un pistoiese già condannato a quattro anni per furti commessi a Vienna.
Secondo le indagini, i due si conoscono e si frequentano e Winckelmann avrebbe mostrato al suo assassino alcune medaglie d’argento e oro regalategli dall’imperatrice. Il resto, come da cronache ‘pulp’ d’epoca, è nella fredda narrazione dell’omicidio: comprati un coltello e un po’ di spago, la sera dell’8 giugno Arcangeli incontra l’archeologo nella sua stanza, lo strangola alle spalle e lo finisce con sette coltellate al petto, gambe e ventre. A Winckelmann resta il tempo di uscire sanguinante in cima alle scale, per poi morire nel suo letto dopo sette ore di “spasimi e di acerbissimi dolori”. L’omicida, reo confesso, verrà giustiziato il 20 luglio, davanti all’ingresso della Locanda.
L’efferato delitto l’8 giugno 1768 in un locale cittadino: un ‘giallo’ o un complotto?
Il primo movente è il furto, ma non sono poche le ipotesi di un delitto maturato nel mondo della prostituzione maschile. Esiste però un’altra tesi, portata avanti grazie agli atti del processo, conservati negli archivi dei Civici Musei di Trieste, che rivelano la modernità dell’approccio alle indagini e dell’iter processuale. Le ricostruzioni successive vengono a ipotizzare addirittura una sorta di ‘sacrificio’ o ‘suicidio per delega’ cercato dallo stesso Winckelmann. Una tesi simile a quella portata avanti anni fa da Giuseppe Zigaina per spiegare l’omicidio-Pasolini ma, nel caso dello studioso tedesco, legata a una sorta di vergogna per la propria ‘caduta’ nel peccato.
L’ultima ipotesi, e non poteva mancare, è quella del complotto: a Trieste, il porto dell’Impero, Winckelmann si sarebbe trovato al centro di una ‘guerra’ diplomatica tra Papato e Impero, visioni ‘illuministe’ e spinte anticlericali. Giochi di potere di cui Winckelmann sarebbe stato vittima inconsapevole, anche se i famigerati documenti che lui stesso avrebbe fatto viaggiare sull’asse Roma-Vienna non sono mai stati ritrovati.