Che si tratti di guidare un mezzo o utilizzare utensili pericolosi, il discorso non cambia: più siamo consapevoli del rischio, miunore sarà la probabilità di farsi del male. E dato che purtroppo molti di noi non badano troppo alla propria sicurezza, gli incidenti gravi non mancano.
Il Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute (Cnesps) dell’Istituto superiore di sanità ha diffuso uno studio dedicato alla percezione del rischio nei luoghi di lavoro, basato su migliaia di interviste fatte ai lavoratori dalle Aziende sanitarie in 17 regioni italiane, compreso il Friuli Venezia Giulia.
Lo studio ha evidenziato come la “percezione del rischio in ambito lavorativo sia influenzata da diversi fattori socio-economici e sia associata anche all’informazione e formazione sui temi della salute e sicurezza sul lavoro e all’aver subito danni da lavoro. Informazione e formazione sui rischi lavorativi e la loro prevenzione giocano dunque un ruolo importante non solo nella percezione del rischio, ma anche nell’adozione di comportamenti di autotutela. Infatti, l’utilizzo regolare dei dispositivi di protezione individuale (Dpi) nelle lavorazioni che li richiedono risulta sensibilmente maggiore tra i lavoratori che hanno ricevuto informazioni sulla prevenzione di infortuni e malattie professionali rispetto a coloro che non le hanno ricevute”.
A livello nazionale il 15% dei lavoratori intervistati considera assente la possibilità di subire un infortunio, il 59% bassa. Ancora, la percezione del rischio di subire un infortunio è più alta tra i lavoratori occupati nell’edilizia (57%), nei trasporti (46%) e nell’agricoltura (44%) e tra i conducenti (68%), le forze dell’ordine o militari (58%), gli infermieri o tecnici sanitari (48%) e gli operatori socio-sanitari (43 per cento).
Ombre e luci
Nel caso del Friuli Venezia Giulia dalle 1.456 interviste emergono risultati contradditori. Se si parla di percezione alta o molto alta del rischio di subire un infortunio ci collochiamo nella media (26% degli intervistati), ma nella percezione del rischio di contrarre una malattia legata al lavoro siamo al terzo posto dopo Molise e Puglia, con il 23% degli intervistati, ben distanti dal Piemonte dove tale percentuale è del 15 per cento.
Informazione essenziale
Va meglio con l’informazione data ai lavoratori su come prevenire infortuni e malattie, dato che ben il 60% degli intervistati ha confermato di averla ricevuta, dunque ben al di sopra della media nazionale ferma al 56 per cento. Ce la caviamo bene anche se si tratta di utilizzare i dispositivi di protezione individuale: con il 76% di intervistati che afferma di utilizzarli, siamo sopra la media nazionale di 4 punti e davanti a regioni come la Lombardia e il Veneto.
Cultura della sicurezza, che fatica!
IN FORTE RITARDO. La consapevolezza di quanto sia importante salvaguardarsi in prima persona sul lavoro è ancora troppo limitata. Lo spiega l’architetto Emanuela Dal Santo esperta di sicurezza sui luoghi di lavoro e autrice di varie pubblicazioni al riguardo.
“Con l’avvento delle normative in materia, verso la fine degli Anni ’90, i miglioramenti sono stati consistenti, ma ciò è avvenuto soprattutto grazie alle direttive impartite dai datori di lavoro che si sono impegnati a fondo, spinti dalle norme e dai controlli oltre che da innegabili benefici in termini di produzione ed efficienza. La crisi ha poi spinto molte aziende, quanto meno quelle più importanti soprattutto in edilizia, a curare di più la sicurezza a differenza di quanto accade spesso nelle imprese di fatto o piccole”.
Molti lavoratori, soprattutto quelli che hanno più di quarant’anni, secondo l’esperta, prendono in considerazione la sicurezza solo se un collega si infortuna, mentre i giovani sono più attenti.
“Il problema di fondo – conferma Dal Santo – è la carenza di cultura della sicurezza. Già nel 1958 negli Stati Uniti si pubblicavano fumetti che spiegavano la sua importanza sui luoghi di lavoro e la necessità che il principale protagonista fosse proprio il lavoratore. In Italia per troppo tempo si è ritenuto che dovesse essere l’azienda a garantire la sicurezza e che dipendesse da altri. Il lavoratore era visto come una sorta di bimbo da accudire. Sebbene la legge 626 abbia cercato di porre rimedio a questo approccio, comunque in caso di incidente si è continuato a puntare il dito soprattutto sull’impresa. La crisi sta modificando l’atteggiamento tra gli stessi lavoratori, ora più attenti alle direttive impartite dall’azienda. La vera sfida è formare i giovani, insistendo sul fatto che il primo responsabile della sicurezza è il lavoratore”.
“Purtroppo uno degli effetti indesiderati della crisi è di aver spinto molte aziende a risparmiare sui costi della sicurezza a partire dai professionisti incaricati di vigilare in materia, col risultato – ci spiega Dal Santo – che si assiste a ribassi inverosimili. Va anche detto che molti professionisti ritengono la figura del coordinatore della sicurezza accessoria e non viene riconosciuta come un’attività seria col risultato che ci si adatta a farla e lo stesso vale per i corsi organizzati spesso in malo modo”.