Sguardi di bambini siriani, iracheni, libici, eritrei che ci passano davanti all’ora di pranzo e cena, quasi quotidianamente. Ci auguriamo che le loro sofferenze abbiano termine presto, che le tante guerre in corso finiscano un bel giorno. Ma i conflitti restano dentro, segnano l’anima, specialmente quella dei più piccoli, dei più indifesi. Zlatko Omanovic aveva cinque anni nel 1994 quando un colpo di mortaio uccise gli inviati della sede Rai di Trieste Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo. I tre erano in Bosnia per girare uno speciale sui “bambini senza nome”, bambini nati da stupri etnici o figli di genitori dispersi nei combattimenti. Marco, Alessandro e Dario raggiunsero Mostar due mesi dopo che il vecchio ponte era crollato sotto i colpi dell’artiglieria croato – bosniaca, quel ponte simbolo, drammatico e terribile, della disgregazione politica e sociale della ex Jugoslavia.
Mostar era una città divisa a metà: la parte ovest croata, la parte est musulmana, quest’ultima tartassata dai bombardamenti. La troupe friulana è la prima a entrare nell’enclave musulmana, provata dall’assedio croato. Luchetta, Ota e D’Angelo scoprono un rifugio dove dormono decine di persone, fra cui molti bambini. Una cantina piccola e buia. Le batterie del faro della telecamera si stanno esaurendo e allora i tre decidono di continuare il servizio all’esterno, alla luce del sole. Zlatko era accanto a loro, in quel momento. Era il 28 gennaio di quell’anno e Marco Luchetta lo stava per intervistare, con l’aiuto dell’interprete: “Non so perché l’ho pensato – sono le prime parole di Zlatko – ma ho capito che stava per succedere qualcosa. Ho gridato nella mia lingua, in bosniaco, ma loro sono rimasti fermi e dopo qualche secondo è finito tutto”.
Zlatko si ritrova con una scheggia che si infila sotto il mento, mentre i tre inviati italiani non ci sono più. Ma morendo, Marco, Alessandro e Dario lo hanno salvato perché gli hanno fatto da scudo. Ora Zlatko, oltre al bosniaco, parla perfettamente un’altra lingua, lo svedese, oltre ad avere un discreto inglese. Dopo essere stato ospitato a Trieste dalla Fondazione che la moglie di Marco ha voluto per aiutare tutti i bambini rifugiati del mondo, è finito in un sobborgo di Goteborg, Partille, dove vive in una tipica casetta di legno insieme al padre Adis e alla madre Sanela. Adesso ha 27 anni: non aveva mai parlato prima d’ora, pubblicamente, di quanto gli è accaduto ventidue anni fa. Sono andato a trovarlo, in Svezia, una Svezia ancora scossa dalla vera e propria caccia all’immigrato messa in atto da centinaia di estremisti di destra alla stazione ferroviaria di Stoccolma a fine gennaio e dalla morte di una giovane cooperante, uccisa da un immigrato minorenne, qualche giorno dopo. Quella Svezia che ha accolto più immigrati lei di tutti i paesi europei, oltre 160 mila nel 2015, e che ora ha deciso di espellere quelli che non hanno i requisiti per ottenere il permesso di asilo.
Quel permesso che Zlatko, suo malgrado, si è meritato una ventina di anni fa: “Talvolta vorrei ricordare tutto precisamente per potermelo finalmente lasciare alle spalle. Ho qualche ricordo più vivido, altri meno. Sono andato da uno psicologo per anni, dipingevo esplosioni, gente che sparava, sangue. I primi anni qui in Svezia li ho passato al Nord, a Lulea: in inverno c’era un metro e mezzo di neve e c’erano solo tre ore di luce. Un incubo. Per fortuna poi ci siamo trasferiti quaggiù, dove si vive meglio. Ma, in ogni caso, non è stato facile, sono caduto più volte in depressione, ho cominciato a mangiare qualsiasi cosa e sono arrivato a pesare oltre 130 chili”.
Zlatko è alto quasi un metro e novanta e solo quest’anno è sceso appena sotto i cento chili. Comincia, molto lentamente, ad accettarsi, ha aperto un profilo Facebook e si è aperto al mondo: “Devo ringraziare la boxe. E’ con quella che ne sto uscendo, solo da poco. Vengo in palestra cinque volte a settimana: per me è quasi una terapia: sul ring sono libero, riesco a dimenticare tutto, ma non credere che sia per la violenza dello sport. Mi piace la tecnica della boxe, capire cosa farà l’avversario, intuirne le mosse e anticiparle. Sogno il primo, vero, match, ma devo buttar giù almeno un’altra decina di chili. Solo a quel punto sarò pronto per farlo”. Il club dove si allena è all’interno del grande stadio Ullevi: un club mitico per gli svedesi, ha quasi cento anni, lì si è allenato Ingemar Johansson, una specie di Primo Carnera gialloblu che riuscì a battere il grande pugile statunitense Floyd Patterson e ad aggiudicarsi il titolo mondiale dei pesi massimi a fine anni Cinquanta.
L’allenatore di Zlatko è Rifat ‘Ricky’ Cajlak, un montenegrino sulla sessantina, simpatico e sveglio. La palestra è proprio quello che ti immagini avendo visto anche solamente i film di ‘Rocky’: fotografie dei grandi campioni internazionali e di quelli locali alle pareti, coppe e targhe dappertutto, un paio di ring, la scala che scende dall’alto a guardare i giovani che si allenano, e tanta musica rap sparata a tutto volume. Colpisce il fatto che i ragazzi siano soprattutto immigrati: ci sono afghani, pakistani, serbi, bosniaci, kosovari, montenegrini, solo ogni tanto c’è un biondo magro e allampanato che ti ricorda che siamo in Svezia. Nelle foto appese Rifat è abbracciato ad un mito bosniaco svedese, Zlatan Ibrahimovic, che quand’era a Goteborg frequentava il club; Ibrahimovic al quale è dedicato un film proprio in questi giorni in programmazione nel paese scandinavo.
“Non è facile per il nostro Zlatko, lo so – mi dice Rifat prendendomi sottobraccio – io cerco di aiutarlo, di dargli coraggio, fiducia, ma ogni tanto lui sprofonda di nuovo nella sua oscurità”. Usa proprio la parola ‘darkness’ che è perfetta per spiegare cosa succede a Zlatko in quei momenti: “Sono gli incubi che arrivano, che tornano in un attimo. Non so se si chiama paranoia, stress, ma mi sento perso, svuotato e non riesco più ad andare avanti. E’ per quello che ho mollato gli studi, solo in questi ultimi mesi ho provato a riprenderli. Per adesso guadagno qualcosa scaricando pesce al mercato, ma il mio sogno è un lavoro in un ufficio, qualcosa di legato all’economia. Così farei felici anche i miei genitori. Un lavoro in Svezia, è chiaro, è questo il mio Paese, adesso. Ma la Bosnia è sempre nel mio cuore, non la dimentico”.
“Quando ci torno, una volta all’anno e vado a trovare i miei nonni, rinasco, la sua natura, il suo verde sono qualcosa di speciale. Ma ancora adesso la Bosnia è un gran caos, e c’è ancora meno lavoro di qua. No, non mi interessa la politica e nemmeno la religione, sono rimasto musulmano ma non sono praticante. Credo in un grande Dio sopra tutti noi, poi chiamalo tu come vuoi, ma più che altro credo negli uomini, vorrei credere in loro. Vorrei ma anche non vorrei saperne di più della guerra che c’è stata nel mio paese: mio nonno è la persona giusta, un giorno voglio ascoltare le sue storie, tutto quello che ha passato. Ma ho anche paura, ho paura che dopo averlo ascoltato possa cominciare ad odiare, sapendo di più. Qui al club di boxe faccio spesso allenamento con ragazzi serbi, parliamo nella nostra stessa lingua madre, e dopo il ring andiamo a berci una birra in centro. Sto bene con loro, senza toccare l’argomento della guerra di vent’anni fa. Ma forse un giorno ascolterò i racconti del nonno e ne capirò di più, anche se non vorrei cambiare il mio atteggiamento. Voglio andare avanti, per quanto non sia sempre facile. Ho conosciuto anche Andrea e Carolina, i figli di Marco e Patrizia Luchetta. Con Andrea, sette od otto anni fa, sono tornato nella piazzetta di Mostar dove è iniziato tutto: a un certo punto Andrea ha voluto restare da solo, davanti alla piccola lapide, messa lì in ricordo del suo papà e dei suoi due colleghi, mentre io sono tornato a casa. Ci siamo rivisti alla sera, e allora aveva con sé un cagnolino, ha detto che gli si era avvicinato in quel cortile e non l’aveva più lasciato. Credo l’abbia portato con sé a Trieste”.
“E’ da molto, troppo tempo che non lo vedo, Andrea, cinque, sei anni, ormai. Ho voglia di ritrovarlo, di passare ancora un po’ di tempo con lui, siamo quasi coetanei e siamo amici. Se ripenso a Mostar, a quegli anni, credo sia sbagliato che io non abbia potuto giocare a pallone per strada e stare con gli amici, come tutti i bambini. Quello che ho visto, invece, è stata la morte, il sangue, le macerie, la distruzione, e tutto questo non si cancella più”. C’è una foto che spiega più di ogni altra cosa, che rende più di un trattato di psicologia: Zlatko sorridente, nell’estate prima della tragedia, con un bazooka appoggiato sulla spalla destra. Un bazooka vero, non di plastica.
Adesso la Svezia è di nuovo piena di profughi, di rifugiati. Dopo la Bosnia ecco la Siria: “E’ tutto come prima, tutto uguale. Provo a non guardare, a non pensarci, ma tutto si ripete, senza differenze. Anzi, visto che i numeri sono diversi, ora, sono molto più grandi, l’atteggiamento della gente anche qui sta cambiando”. Non è cambiato invece l’atteggiamento della Fondazione Luchetta, Ota, D’Angelo e Hrovatin (quest’ultimo un altro operatore triestino della Rai morto sempre nel ‘94 in un’altra zona di guerra, la Somalia). Come ha ricordato in un’intervista di qualche anno fa la vedova di Marco, Patrizia “… vogliamo aiutare i bambini che non si possono curare nei loro paesi di origine. Sono bambini che soffrono di patologie particolari, oppure feriti in guerra, e si trovano in una condizione di disagio non risolvibile nel loro paese. Per cui si dà loro la possibilità di venire a Trieste per curarsi, accompagnati da un familiare.
Questa è la linea principale della Fondazione: cioè che i bambini possano avere anche bisogno di supporto psicologico, oltre che di cure mediche, e quindi di un luogo, un centro in cui poter essere ospitati assieme ai loro familiari più stretti durante i cicli di cura”. Zlatko fu proprio il primo ad essere aiutato in quel lontano 1994: una cosa tutt’altro che semplice, con il Paese dilaniato dalla guerra civile, il suo trasferimento bloccato da mille autorizzazioni, documenti, permessi. Ma alla fine la Fondazione triestina, che allora era solo un piccolo comitato, riuscì nel suo intento: Zlatko arrivò a Trieste nell’estate dello stesso anno e da lì volò in Svezia per ricongiungersi con i suoi genitori.
Genitori, Adis e Sanela, che adesso vorrebbero una compagna bosniaca per il loro ragazzone: “A loro piacerebbe, ma non mi hanno mai detto niente quando, recentemente, ho portato qualche bionda svedese a casa. A me ora basta solo fare un passo alla volta, arrivare al diploma, trovare un buon lavoro e poi una ragazza fissa. So che il tempo corre via, e io, a un certo punto, mi ero fermato. Adesso voglio ricominciare a correre”. Una corsa dedicata anche a Marco, Alessandro e Dario, perché più Zlatko riuscirà ad integrarsi e ad avere una vita felice nel suo nuovo mondo, più darà significato all’impegno, alla passione e al sacrificio dei tre inviati triestini.