Compie 80 anni Claudio Magris, il più grande scrittore italiano vivente, nato a Trieste il 10 aprile 1939. Profondo conoscitore della letteratura mitteleuropea, nel 1963 pubblicò per Einaudi la sua tesi di laurea, il saggio ‘Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna‘, mentre nel 1984 esordì in letteratura con il romanzo ‘Illazioni su una sciabola” seguito poi da ‘Danubio‘ (1986) e ‘Microcosmi’ (Premio Strega 1997), fino all’ultimo ‘Tempo curvo a Krems‘ (Garzanti), edito da pochi giorni.
Germanista, scrittore, studioso della Mitteleuropa e di autori come Biagio Marin e Italo Svevo, Magris è stato, nel 1970, il relatore della prima tesi di laurea dell’allora sede udinese del corso di laurea in Lingue e letterature straniere dell’Università di Trieste. Corso di laurea da cui poi nacque l’Ateneo friulano, nel 1978.
“Gli 80 anni di Claudio Magris ci ricordano che vive tra noi la voce di una grande coscienza morale e civile – scrive il segretario regionale del Pd Fvg Cristiano Shaurli -, uno scrittore che con le sue opere ha trasformato conoscenza e cultura in parametro di civiltà. Nel giorno del suo compleanno, la comunità del Partito democratico del Friuli Venezia Giulia lo ringrazia per il suo pensiero e la sua scrittura. Esprimiamo a Magris un forte e sincero augurio di continuare a lungo la sua testimonianza di saggezza, cultura e impegno civile”.
Durante una delle sue visite a Udine, nel 2006, abbiamo chiesto a Claudio Magris di rispondere alle domande della rubrica “Sul comodino di…”, pubblicata dal settimanale il Friuli. Dopo alcuni giorni, lo scrittore ci ha inviato via fax un suo scritto, con la dicitura “Per spiegare perché non so rispondere…”. Si tratta del racconto Mal di test, del 1994, tratto da Utopia e disincanto © Garzanti Libri s.p.a., 1999, 2001, un brano da leggere che condiviamo con i lettori in occasione degli 80 anni dello scrittore.
“Il suo colore preferito?”, chiede una delle tante domande del test. La risposta, in questo caso, è facile e univoca: l’azzurro, il colore del mare, della lontananza e dell’assenza. Anche la predilezione per il gabbiano – cui non per nulla si reca ogni anno il tributo di una visita sull’isola Levrera, dinanzi a Cherso, quando si schiudono le sue uova – esime da esitazioni. Un altro quesito sembra inizialmente anch’esso problematico.
Il fiore più amato è certo il papavero, ma mentre lo si scrive si sente che il fiordaliso, la viola e la margherita non possono essere esclusi; inoltre forse non è giusto rispondere papavero, che da solo è poco: i papaveri sono incantevoli, ma tutti insieme, un campo, almeno un ciuffo, mentre una rosa basta da sola, e dunque anche quella domanda facile lascia interdetti. I questionari, d’ogni genere, si moltiplicano e arrivano da ogni parte; se Camus diceva che l’esistenza dell’individuo poteva essere riassunta, ai suoi tempi, nella formula “fornicava e leggeva giornali”, oggi si dovrebbe forse aggiungere che questi, in più, riempie questionari, o rilascia brevi dichiarazioni, per lo più telefoniche, sui temi più disparati. Non è il caso di deplorare il fenomeno con la patetica predica sulla parcellizzazione della vita e dell’individuo nella società contemporanea; rispondere a test era un gioco non disdegnato da scrittori come Proust e Thomas Mann, che è difficile accusare di superficialità.
I questionari rivolti agli scrittori solleticano a rispondere per varie ragioni: per curiosità, per il piacere del gioco, per la vanità di trovarsi al fianco di grandi maestri egualmente interpellati, per il timore di trasgredire le regole sociali del proprio clan culturale e di esserne messi ai margini. Anche se le domande sono numerose, si pensa di sbrigarle rapidamente, sia perché le risposte devono essere telegrafiche sia perché si è persuasi di avere idee, opinioni, gusti, convinzioni, amori, odi, pensieri. Soprattutto si è persuasi di avere in qualche modo già espresso nei propri libri gran parte di questi sentimenti e pensieri; non sembra dunque difficile tradurli dalla loro espressione fantastica, metaforica, in una dichiarazione esplicita. Forse che Conrad e Stevenson avrebbero avuto difficoltà a dire che amavano il mare? Per tale attestazione non occorre la grandezza con cui hanno rappresentato il mare. Ma invece, sin dai primi passi, si annaspa. Come si fa a indicare il poeta preferito? Leopardi o Baudelaire? Già in quest’alternativa c’è una violenza invadente, o forse questa è una nobile scusa per la propria irresolutezza. Anche considerando – ma è un modo per trarsi un po’ d’impaccio – fuori categoria Dante o Shakespeare, come autori per i quali la definizione di poeta è troppo restrittiva, altri si affollano subito, legittimi e imperiosi; lasciar fuori Petrarca è un disagio troppo grande, si scrivono nomi e li si cancella con un frego di penna, anche una sola poesia di un autore che si ama soltanto per quella lirica appare insopprimibile.
Ci si accorge di assomigliare a un personaggio di Capek, il signor Vasàtko, che, sottoposto a un test, confonde lo psicologo perché è incapace di rispondere a una parola-stimolo con un solo termine, il primo che gli venga in mente, ma ne sciorina ogni volta decine, in un’irrefrenabile e bislacca catena associativa.
E gli scrittori? Due – indiscutibili – sono due non-scrittori, due entità sovrapersonali e plurime, lo Spirito Santo e Omero, se è vero che hanno scritto la Bibbia e l’Iliade e l’Odissea. Ma gli altri? È subito una gran confusione, come in certi pasticci sentimentali in cui si finisce per non sapere chi si ama di più e non si sa che pesci pigliare. Cervantes, Sterile, Tolstoj, Kafka, ma non si penserà di tralasciare Dostoevskij o Flaubert, scherziamo, e poi… per quel che riguarda le eroine preferite nella finzione, la Pisana insiste a voler prendere il posto della marchesa di Merteuil, ma è impossibile dire se vi riesca o no, in quel codazzo di altre donne che si fanno avanti. Con gli eroi romanzeschi prediletti è ancora peggio; un attimo prima di chinarsi sul questionario sembrava di averne, ben chiari, due o tre, ma subito dopo altri premono, incalzano, spingono, il capitano Achab arranca accanto al signor Pickwick e a Zeno, dalla soffitta di un villaggio di Singer s’affaccia Nathan Yozefover; è una folla e non si ha voglia di dirigere il traffico, di metterla in ordine e in fila, bensì di esserne felicemente sopraffatti. Sino a questo punto si tratta, tutt’al più, di una patologica indecisione critica o di una incoercibile ma felice vocazione poligamica; forse è bene non saper scegliere fra chi si ama, è certo giusto non scegliere tra i propri figli, anche se se ne hanno cento come Priamo. Le cose saranno certo più chiare per quel che riguarda non la finzione letteraria, bensì la vita, la realtà; uno saprà certo dire cosa ama, odia, teme o desidera di più, i luoghi che preferisce e quelli che aborre. Cos’è per lei la felicità perfetta, qual è il disastro più grande?
Sembra di sapere così bene cosa sia, la felicità, finché è un’aria che avvolge, un orizzonte verso cui si guarda; forse la si è anche avuta, nonostante tutto, giorni perfetti non cancellati da tanti altri di dolore, di paura, di oscurità. Ma come definire, dichiarare un’esistenza condivisa, un volto, amore, amicizia, figli, riso, armonia, una stagione? E il mondo intorno, non dovrebbe anch’esso essere almeno non infelice, perché questa felicità fosse “perfetta” e non filistea? E qui le cose si complicano ulteriormente, perché non si può escludere il meschino desiderio di lasciar trapelare un animo nobile e altruista, e nemmeno l’altrettanto meschino timore di apparire banali. È forse facile indicare nella liberazione degli schiavi la riforma che si ammira di più; ma il disastro più grande? la guerra, l’infamia, tragedie individuali più difficili da sopportare di quelle collettive, violenze senza nome…
Dove vorrebbe vivere? i luoghi amati mi sono ben presenti, a cominciare da quello in cui vivo, ma, appena messi in testa alla classifica, si rattrappiscono, ristagnano in un’afa, mancano di qualcosa di indefinibile, che non si oppone all’amore per essi, ma alla sua proclamazione. Man mano si prosegue nel questionario, si è risucchiati in un vortice di incertezza; non sono tanto le idee, i gusti, le predilezioni a traballare, quanto lo stesso io chiamato a declinarli, che si sente improvvisamente astratto, irreale, un po’ come quando si ascolta per la prima volta la propria voce registrata, e si stenta a credere che esca dalla propria bocca. Era o pareva tanto più reale raccontare a qualcuno dei luoghi e delle persone amate, rievocare libri, figure e isole. Chi cerca di far parlare i prigionieri e rifugge dalla tortura, sa bene che il metodo migli ore è lasciarli raccontare, finché viene fuori, non premeditata, la loro esistenza e ciò che essa contiene, anche quello che non si vorrebbe far sapere al carceriere. Come può il questionario pretendere che il suo compilatore dica ciò che egli avrebbe voluto essere? forse niente, perché si basta così e si gode pure la vita negli intervalli fra le catastrofi, oppure ciò che gli manca, ossia tutto, perché si accorge di essere un’ombra, una controfigura, come se un altro contemplasse con tenerezza il campo di papaveri, mentre lui cincischia sul suo fiore preferito. Nel mondo dei test, la persona viene sempre più sminuzzata negli atomi delle sue singole prestazioni o tendenze, specificabili e schedabili. Già Musil osservava come scomporre l’individuo nelle sue qualità significasse distruggere l’individuo stesso, produrre un “uomo senza qualità” che di fatto è un coacervo di qualità, anche notevoli, senza l’uomo.
Come si può dunque osare indicare, nella risposta alla domanda numero 16, il tratto principale del proprio carattere, se quelle botte e risposte fanno anzitutto dubitare di avere un carattere? L’io si frantuma e le sue qualità svaporano. Non si può farne una colpa alla computerizzazione che governa il mondo. Quella logica non snatura la vita, come protestano i nostalgici del buon tempo antico, ma ne dice forse la verità, mette a nudo il meccano di cui siamo fatti e che riluttiamo a vedere; lascia filtrare, negli spazi bianchi fra una “D.” e una “R.”, il vuoto, il niente, l’indicibile e impensabile morte, che le favole e i racconti conoscono bene ma eludono e rimandano, come Sheherazade.
Come vorrebbe morire? chiede il questionario. Immagini di serenità, coraggio, coralità di figli e nipoti, il volto che si vorrebbe aver vicino anche in quel momento come sempre, il leonardesco sonno dopo una vita ben spesa – tutto sbiadisce, s’infrange, contro il tono asettico della domanda che sbarra la strada alla risposta, come i vetri aguzzi incastrati sui muri di cinta per impedire di scavalcarli. Come è più facile raccontare dell’amore, del riso o della morte, intrattenere ascoltatori o lettori col fluire ininterrotto di parole non spezzate da nessuna “D.” né “R.”, che simulano la continuità della vita, epica e calda anche nel dolore, e coprono il silenzio gelido, la frattura e il discreto dell’essere, gli interstizi vuoti messi in evidenza dal questionario. Il gesto di narrare crea, finge e costruisce un’identità, mentre chi risponde ai test sente di perderla, come un accusato dinanzi al poliziotto o al giudice che lo interroga. Fra le varie domande, ce n’è una relativa a un proprio motto.
Naturalmente non ce l’ho, ma potrei adottare – e rivolgere eventualmente pure agli estensori di questionari – il ritornello che un pluribocciato scolaro tedesco opponeva a ogni domanda dell’insegnante, sia che questi gli chiedesse la data dell’incoronazione di Carlomagno, sin che volesse sapere da lui in quanto tempo si svuota una vasca, considerata la quantità d’acqua versata da un rubinetto e quella che esce dallo scarico: “Vorrei averle io, le sue preoccupazioni!”.