Dai fasti di un passato non remoto a un futuro con i colori dell’apocalisse. Vent’anni di letteratura fatti di racconti giovanili, riflessioni di una maturità accompagnata dalla tragedia collettiva e sguardi preoccupati verso un futuro (im)possibile. A guardare il Nord, l’ultima pubblicazione del pordenonese Massimiliano Santarossa per Biblioteca dell’immagine, non è solo una raccolta ‘riveduta e corretta’ di parte della sua produzione – centinaia di pagine in un volume unico, quasi un ‘remaster’ per usare una metafora musicale – , ma anche e soprattutto “un’antologia di grandi errori. Un vasto documento su un’epoca partita nell’agosto ’84 con l’urlo di Mike Buongiorno dopo la legge sulle liberalizzazioni delle tv e finita nel marzo 2020 con le lacrime di Bergamo. Quarant’anni di storia e di errori”.
In uscita il 1° aprile, A guardare il Nord ripropone integralmente gli scritti esplicitamente dedicati agli Anni ’80 (Storie dal fondo, Gioventù d’asfalto), quelli dell’altrettanto festaiolo decennio successivo (Hai mai fatto parte della nostra gioventù?, Viaggio nella notte), prima di arrivare a un presente all’incrocio tra realtà, distopia e cronaca (Padania, Metropoli, gli scritti del primo lockdown…). Vent’anni di letteratura, dai primi pezzi pubblicati su L’ippogrifo, ripresi e ‘raddrizzati’, fino agli articoli scritti nel marzo-aprile 2020 per il Messaggero Veneto, quasi a chiudere un cerchio sul cosiddetto Nord-est, un tempo ‘miracoloso’. “Io – puntualizza Santarossa – continuo a chiamarli Friuli e Veneto, perché Nord-est era un’invenzione legata all’economia, che ormai è crollata. Noi a Pordenone vediamo chiaramente le differenze, visto che non siamo né friulani né veneti: la città è una lente d’ingrandimento essendo ‘bastarda’, come scrive Covacich”.
Scorrendo le centinaia di pagine, sembra quasi che ora paghiamo per due decenni vissuti spensieratamente, in maniera ‘edonista’ e come se non ci fosse (stato) un domani. O non è così?
“Gli ‘80-’90 sono stati un periodo un po’ libertino e anche chi viveva ai margini, in una periferia-capitale del punk, ma purtroppo anche delle droghe pesanti, era pervaso da una folle leggerezza. Tutti pensavano a un futuro, magari allucinato, ma nessuno se lo immaginava ‘impossibile’, come oggi. La pandemia ha solo dato il colpo di grazia a un sistema che si stava divorando da solo. E’ tipico dei sistemi economici esaurirsi: lo dicevano i liberisti, mica Marx…”.
Che può fare uno scrittore, a parte raccontare passato e presente e cercare di intuire il futuro?
“Io vorrei che il mio libro fosse un documento sugli errori da non ripetere, un compendio degli sbagli commessi dalle nostre generazioni. Qualcosa di utile, bello o brutto che sia. Occorre chiudere un capitolo e immaginarne uno nuovo, ma diverso, senza sfoderare vecchi cavalli – o… Draghi – di battaglia. Speriamo nei ragazzi e che abbiamo a cuore l’ambiente: non vedo altra soluzione”.
Rileggendo ‘Metropoli’, uno dei romanzi riproposti in ‘A guardare il Nord’, vengono i brividi, anche se è ‘solo’ fantascienza…
“Sì, fa impressione: l’ho scritto 7-8 anni fa, è ambientato nel 2035 e ci sono pagine dove si ipotizza il crollo dell’Occidente nel dicembre 2019 dopo una crisi economica e un grande morbo! Una frase in particolare mi ha molto colpito nel rileggerla: nella guerra tra i corpi e il morbo vinse il morbo, nella guerra tra economia e debito vinse il debito. Mi auguro di aver sbagliato e che la nuova Europa che cerca di difendersi dalla crisi con l’annullamento di ogni diritto e il ritorno al Medioevo sia solo un’invenzione. Però, quando 15 anni fa sostenevo che ‘questo tipo di economia non può reggere a lungo’, mi prendevano per matto. Ora dicono che ho scritto cose profetiche, ma non è così: neanche Pasolini era un profeta. Gli scrittori mettono solo assieme più dati e fanno attenzione a quello che dice il mondo: se non ti guardi solo l’ombelico, ti fai un’idea di quello che può accadere”.
Il volume si chiude con le ‘cronache’ della pandemia, nate durante un’intensa attività social, fatta di comunicazioni quotidiane che hanno avuto tanti ‘follower’ e qualche ‘hater’. Un anno dopo, pare siamo tornati al punto di partenza…
“Quello che scrivevo sui social era un bollettino di guerra un po’ tragicomico, che mi ha attirato anche un paio di minacce di morte! All’inizio bisognava remare tutti dalla stessa parte, ma un anno dopo siamo alla commedia dei grandi annunci della politica, smentiti, con sinistra e destra ormai capottate. Quel poco di Italia che restava era sorretta dagli anziani e dalla bellezza: al momento, quindi, non c’è nulla. I due poli sono crollati e prima si fa un ragionamento su arte e cultura del Paese, meglio è, visto che non sarà l’economia a salvarci”.
Qualche rimpianto e ripensamento, guardando a questi 20 anni di scrittura?
“Io resto un punk, figlio della mia città, anche parlando di letteratura, quindi rifarei tutto uguale, con la mia ruvidità. Riprendendo in mano tutta la massa di materiale, ho provato a salvare il più possibile e mi sono reinnamorato di una parte del Friuli, la mia, che trovo ancora molto libera e indipendente e mi piace più di allora”.