L’email era di poche righe, in un italiano di chiara derivazione Google. C’era una foto in allegato. Sharmila e il piccolo Amar sorridevano, sprofondati in un divano dai toni rossi e ocra. Clara non l’aveva mai vista così. Mostrava tutti i denti, bianchissimi, un filo di rossetto, gli occhi resi più profondi da una riga di kayal.
Sharmila era stata la prima. Dopo di lei Clara aveva seguito molti altri casi e aveva a mano a mano definito il suo approccio personale alla faccenda. L’aveva chiamato “riduzione del danno”. Le donne come Sharmila si presentavano in consultorio con vaginiti, cistiti, irritazioni varie, oppure con dolori che non trovavano alcuna spiegazione medica. Al contrario dei suoi colleghi, Clara non si limitava a curare il sintomo, andava oltre. Aveva capito che doveva insegnare alle sue pazienti ad avere rapporti con quei mariti che avevano conosciuto soltanto in fotografia. Rapporti senza dolore. Era un metodo semplice che probabilmente in patria veniva spiegato dalle sorelle, dalle madri. Serviva ad evitare conseguenze ben più gravi, dal divorzio a dio sa cos’altro.
Con Sharmila, all’inizio, non aveva capito. Era venuta in consultorio sei mesi dopo il parto. Amar era il suo primo bambino, nato con un cesareo, di una bellezza che lasciava senza fiato. Lei parlava solo bangla, con un filo di voce, e il marito traduceva. Aveva fortissimi dolori all’addome, un gonfiore diffuso, la carnagione spenta. Clara l’aveva visitata accuratamente. Sembrava tutto normale.
“Possiamo escludere che il problema sia di natura ginecologica. Dovrebbe rivolgersi ad un gastroenterologo.” Lo aveva detto rivolta al marito, perché la donna teneva gli occhi bassi, fissando le ginocchia.
Poi Sharmila era tornata. Il gastroenterologo non aveva trovato nulla, ipotizzava qualche problema all’uretra oppure una endometriosi. Clara aveva indagato ancora, nuove analisi, qualche antidolorifico, ma nessuna cura sembrava quella giusta. Per qualche settimana Sharmila teneva duro, poi tornava. Si faceva portare in consultorio o direttamente in pronto soccorso. Sempre più gonfia, sempre più grigia. Il marito ormai la scaricava direttamente all’ingresso dell’ospedale e se ne andava. Non era facile senza la sua intermediazione. Sharmila sapeva soltanto dire “male male”, indicando l’addome. Dopo mesi di questo via vai, i colleghi del pronto soccorso avevano deciso di ricoverarla, in medicina generale. Una settimana di indagini. Risultati zero.
Il marito, un uomo piccolo, nervoso, con quell’aria da eterno ragazzino che hanno spesso indiani e bengalesi, era venuto raramente a trovarla durante quella settimana. Clara l’aveva incrociato soltanto una volta in reparto. Le era capitato di origliare una conversazione che avrebbe preferito non aver sentito.
“Vi dico che è matta”, sibilava l’uomo al medico di turno. “Uno torna dopo nove ore di lavoro, si spacca la schiena in fabbrica, e a casa vorrebbe trovare un po’ di felicità. E invece cosa trova? Questa qua non fa altro che lamentarsi. Tu sei uomo, capisci, vero? Io chiedo solo un po’ di felicità, non è normale?”
Quelle parole le erano rimaste appiccicate addosso come muco. Clara aveva iniziato a capire soltanto allora. A Sharmila aveva detto di venire in studio quando voleva, di portarle le nuove analisi che faceva, per darci un’occhiata insieme. Ma ormai sapeva che non ne sarebbe mai venuta a capo.
Alla fine Sharmila era partita. Il marito, esasperato, aveva pagato un biglietto di sola andata per lei e Amar, destinazione Dacca.
Clara fissò la foto che aveva appena ricevuto. Sharmila indossava un sari turchese, che faceva risaltare divinamente la sua pelle scura. I lucidi capelli erano raccolti in una treccia morbida che le scivolava sul petto. Cosa stava facendo in questo esatto momento? Cercò di immaginarsi la sua vita, ma non ci riuscì. Sapeva solo che la “riduzione del danno” a Sharmila non sarebbe più servita. Sorrise e spense il computer.
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