Ha superato il quarto di secolo l’attività della Finanziaria regionale per l’internazionalizzazione, vale a dire Finest. Di acqua sotto i ponti in questo periodo ne è passata e la corrente negli ultimi anni ha addirittura accelerato. Ma la società, con quartier generale a Pordenone e competenza su 44 Paesi dell’Est europeo, dei Balcani e dell’area mediterranea, continua a svolgere un ruolo di sostegno e accompagnamento alle imprese che vogliono mettere un piede nei mercati esteri. E non quelli ‘miracolosi’ dell’estremo oriente, ma proprio in quelli dietro l’angolo che sono più alla portata delle Pmi. Attualmente impegna in operazioni di partecipazione e finanziamento 300 milioni di euro, che hanno generato due miliardi di investimenti. E per il suo presidente Mauro Del Savio, avianese e di professione manager di Electrolux, appena confermato per il secondo mandato, è proprio una strategia di breve raggio ma di lungo periodo a cui prima di tutto bisogna guardare.
Finest con i sui limiti di operatività geografica, ha ancora senso oggi?
“Quando parliamo di internazionalizzazione è bene precisare che la maggior parte delle imprese nordestine ha avviato progetti di ‘prossimità’. Questa selezione naturale dei mercati di riferimento è insita nelle caratteristiche delle nostre imprese: piccole dimensioni, talvolta sottocapitalizzate, a conduzione familiare e con clientela principalmente europea, preferiscono solitamente rimanere all’interno di una geografia gestibile anche in piccolo. Quindi per tornare alla sua domanda: sì, Finest ha ancora senso perché è coerente con le richieste del territorio. È in questo quadro che ci sentiamo forti: i 25 anni non sono passati a vivacchiare all’ombra di una ‘operatività di natura pubblica’, ma abbiamo interpretato nel migliore dei modi la logica del fare internazionalizzazione impostando e gestendo solidi legami di prospettiva per il futuro con le istituzioni di questi Paesi. Lo confermano le erogazioni in crescita, il portafoglio di 70 partecipazioni per circa 100 milioni investiti e uno storico di oltre 550 operazioni. Nel 2014 grazie alla Legge Sonego, abbiamo ottenuto un allargamento ai Paesi Med, Francia, Spagna e Turchia incluse. Continuiamo a chiedere di poter operare liberamente sul mercato, ma nel mentre diamo il massimo con quello che abbiamo”.
Che obiettivi si è dato come secondo mandato?
“Ritornare ai fondamentali: condividere il progetto industriale, investendo capitali e scommettendo insieme all’imprenditore. Questo è il nostro valore distintivo, che comporta anche una buona dose di credibilità. Entrare come soci in un’azienda è come entrare in casa d’altri: l’apporto di capitali e finanza è solo l’ultimo step di un processo di fiducia reciproca. Se non portassimo qualcosa in più, le aziende non ci aprirebbero quella porta e troverebbero altre forme di finanziamento”.
La finanziaria ha riassorbito i contraccolpi della crisi che ha coinvolto anche i Balcani?
“Quando si parla di Balcani si parla di una continua crisi esistenziale, fatta di instabilità politica, incertezze finanziarie, divergenze mai risolte. Eppure qui molti imprenditori hanno trovato occasioni di investimento, grazie alla vicinanza territoriale e culturale. Chiaramente non sono mancate le difficoltà, soprattutto tra 2011 e 2012: l’abbiamo scontato anche noi, perché quando sei socio partecipi sia alle vittorie sia alle sconfitte. Ma si è trattato di un biennio critico per tutti, al di là della geografia”.
Le banche oggi sostengono le aziende nell’internazionalizzazione?
“Sì, su due fronti: in primis i grandi gruppi bancari, presenti all’estero e focalizzati sulle necessità delle imprese italiane. E poi la rete territoriale di alcune realtà che si sono specializzate nei prodotti corporate internazionali. Su entrambi abbiamo sviluppato azioni di collaborazione, perché il nostro prodotto non è in alternativa a quello bancario ma in sinergia. Insieme possiamo dare un apporto finanziario determinante per le imprese”.
Con la liquidazione delle banche venete il concetto di Nordest può dirsi finito?
“Non direi. Certo, il colpo è arrivato dritto al cuore dell’orgoglio nordestino, fatto di lavoro, onestà, tradizioni e valori. È anche vero però che a volte serve uscire dalla mistificazione per tornare concreti. Mappare i comparti, sia nella geografia sia nella expertise, specializzandoli nel ricreare nuovi ruoli e competenze anche all’interno di una innovazione tecnologica digitale. Il Nordest è un microcosmo capace di competere con le più evolute regioni europee: superiamo i pregiudizi, anche quelli positivi che annacquano le reali prospettive, e andiamo avanti su un percorso che ci ha sempre dato ragione, cioè fare impresa e farlo bene”.
Il tempo della delocalizzazione produttiva spinta è terminato. Si assiste anche per l’Italia al fenomeno del Reshoring, cioè un riposizionamento produttivo?
“La parola delocalizzazione mi riporta indietro nel tempo, quando si competeva sul prezzo con prodotti a scarso valore aggiunto. Allora eravamo la Cina d’Europa e quando non vi sono state più le condizioni per mantenere questi standard al ribasso alcuni si sono trasferiti altrove, con totale impoverimento per il territorio. Ma i tempi sono cambiati e la crisi ha dato il colpo di grazia alle logiche di breve termine. Invece di competere con Cina, Bangladesh e India, noi dobbiamo competere con Germania, Francia e Spagna: è alzando l’asticella che si impara a saltare in alto. Tenendo a mente, per altro, che il nostro mercato interno non è più quello italiano, ma quello europeo”.
E cosa ne pensa del campanilismo tra Pordenone e Udine?
“Viviamo nell’era della globalizzazione, siamo avvolti da una rete, il web, che ci proietta alla velocità della luce negli angoli più remoti della conoscenza. Ci sono quasi 5 miliardi di telefonini nel mondo che lavorano anche quando noi riposiamo. In questa intervista ci sforziamo di parlare di catene globali del valore e mercati mondiali, eppure torniamo ancora a ‘Udine vs Pordenone’. Sono convinto che il tema non sia affatto all’ordine del giorno dei cittadini udinesi e pordenonesi. Sarebbe quindi opportuno uno svecchiamento della classe dirigente pubblica: qualche passo indietro, più giovani nei posti che contano, più cultura globale, più senso della realtà. I nodi si scioglieranno automaticamente”.
Le hanno mai chiesto di impegnarsi in politica?
“La politica per me è cosa seria e come tale la rispetto, lasciando fare ai professionisti. Io sono posizionato dall’altro lato, quello dell’impresa. Se richiesto posso mettere a disposizione della collettività l’esperienza maturata ed è quanto accaduto con Finest: il mio contributo alla politica è stato dire di sì subito, senza riserve. Per altro non avevo colto immediatamente la portata di quel sì. L’ho capito solo quando i ‘44 Paesi’ sulla carta si sono tradotti concretamente in 44 legislazioni, lingue, economie, sistemi bancari diversi… è un lavoro difficile e Finest sa farlo bene”.
Nel suo privato quali sono le sue passioni?
“Dovrei rispondere col sempreverde binomio cultura e sport. Voglio però essere onesto fino in fondo: non leggo 60 libri all’anno e non faccio trekking ad alta quota. Al momento sono impegnato con due incarichi e il tempo è scarso. Punto tutto sulla musica (rock!) e sulla cura del verde. Non sarà chic, ma è così che tiro il fiato”.
Con il presidente del collegio sindacale Marco Tullio Petrangelo, che è anche presidente di Promoturismo Fvg, parla mai di strategie per il turismo?
“Mi piace questa domanda, perché richiama ruoli, compiti e attività diverse a confronto. Nel nostro lavoro una frazione di intelligenza sta proprio nell’individuare i confini e rispettarli. Il presidente Petrangelo mette a disposizione di Finest la sua grande conoscenza ed esperienza. Noi siamo estremamente soddisfatti per il suo apporto e il tutto si esaurisce qui”.