Da giovane aveva due strade tra cui scegliere: raccogliere le redini dell’azienda oppure intraprendere la carriera di calciatore. Mauro Lovisa le ha imboccate entrambe e queste due passioni non le ha più abbandonate. Infatti, il presidente del Pordenone Calcio, diventato celebre ben oltre i confini friulani per i risultati della squadra neroverde nelle ultime stagioni, è ‘anche’ un imprenditore.
È, cioè, una delle anime della cooperativa Vitis Rauscedo di San Giorgio alla Richinvelda, una realtà che riunisce dal 1985 tredici soci e il cui presidente è il padre, Atanasio Lovisa. Vitis opera nel vivaismo viticolo e vende 7 milioni di piante all’anno, in gran parte nel mercato italiano dove realizza l’80% dei ricavi grazie a una consolidata rete di clienti storici, ma anche con una presenza all’estero con destinazioni il Portogallo, la Russia, la Romania e da poco anche la Spagna.
Che momento è per il settore delle barbatelle? “Un momento particolare, perché come altri settori sta affrontando i temi dei cambiamenti climatici e della sostenibilità ambientale. Quindi, non solo lo spostamento più a nord della coltivazione della vite, ma anche i più frequenti stress termici e idrici nelle tradizionali aree a vocazione vinicola. Inoltre, c’è la questione dei trattamenti fitosanitari che, oltre a rappresentare una fonte di inquinamento, hanno anche un costo rilevante per l’azienda. Vitis Rauscedo, sensibile alle problematiche ambientali, ha investito parecchio negli ultimi anni in ricerca in ambito di ‘vivaismo sostenibile’ studiando tecniche meno impattanti di produzione e producendo barbatelle certificate biologiche. Crediamo molto nel made in Italy e quindi nel binomio ‘vitigni-ambiente’ che rende l’Italia nel mondo inimitabile, tuttavia sarebbe ottuso l’atteggiamento di rifiuto verso i nuovi vitigni tolleranti”.
E sulle innovazioni genetiche siete presenti? “Vitis chiude un periodo ventennale di selezione clonale dei vitigni italiani e internazionali, ove mai si è perso l’obiettivo di adattabilità di questi alle variazioni climatiche. Recentemente abbiamo stretto accordi di collaborazione con chi in Europa fa selezione genetica verso gli aspetti di adattabilità ambientale e tolleranza dei vitigni alle malattie fungine”.
Quali prospettive per il futuro? “L’ideale sarebbe avere varietà tolleranti o resistenti ai patogeni senza perdere l’identikit della varietà ‘tradizionale’ coltivata a garanzia dell’autenticità del prodotto italiano nel mondo: oggi i vitigni di questo tipo non rappresentano l’enologia italiana in senso stretto tanto che tecnici, commerciali e quindi consumatori sono ancora molto scettici sulle potenzialità nell’espressione del territorio. Non è un caso se in Germania, dove su questo percorso stanno lavorando fin dal 1965, oggi la domanda di barbatelle di viti resistenti rappresenti appena l’1,5% del mercato”.
Lei ha il polso della viticoltura che verrà tra qualche anno, quale rotta sta seguendo? “La sostenibilità ambientale giocherà un ruolo fondamentale che sia essa indirizzata alla coltivazione biologica oppure con tecniche avanzate di basso impatto: il consumatore e il cittadino sono molto attenti alla salubrità dell’ambiente vissuto e alla ‘bontà qualitativa’ del prodotto consumato. E in Friuli dobbiamo cercare di individuare e valorizzare una nostra identità. Faccio un esempio su cui ultimamente assisto a un aconfronto acceso tra produttori: la Ribolla gialla. Sono stati realizzati 2.500 ettari di impianti e si parla di saturazione del mercato e crollo dei prezzi. Eppure, il Prosecco, su un’area interregionale ha oltre 25mila ettari e continua a espandere la propria esportazione. Sulla Ribolla e su altri autoctoni friulani dobbiamo giocare una partita cruciale, non esiste problema che non abbia soluzione. Però serve un progetto ampio e condiviso: un traguardo comune. Altrimenti rischiamo di perdere un’importante occasione”.
Proprio sul Prosecco, non teme l’esplosione di una bolla speculativa? “No, perché sta trovando un suo equilibrio. L’introduzione di un blocco per nuovi impianti e la pianificazione della produzione sono strumenti fondamentali e dimostrano che con una regia è possibile capitalizzare su solide basi il successo di un prodotto”.
Hanno ancora spazio di crescita gli autoctoni friulani? “È solo una questione commerciale. I produttori friulani lavorano in maniera seria ma non sono mai riusciti a fare sistema, mentre i veneti sono più attenti e se c’è da fare business non ci pensano due volte e trovano un accordo che va bene a tutti. Ciononostante rimango convinto che i vini autoctoni friulani possono avere un loro spazio importante sul mercato”.
Quando e come ha contratto la malattia per il calcio? “Fin da ragazzo ho giocato a calcio nel Pordenone proseguendo con la carriera in prime squadre della regione fino a 35 anni. La vecchia società fallì nel 2004 e perse il diritto della categoria. A quel punto il presidente del Don Bosco Calcio, Giampaolo Zuzzi, e l’allora sindaco Sergio Bolzonello assieme ad altri si impegnarono per rilevare i diritti e creare una nuova società. Io fui coinvolto per rapporti di amicizia con i dirigenti Gian Paolo Zanotel e Claudio Canzian e così è iniziata l’avventura: diventato presidente nel 2007 iniziammo il percorso che dalla Eccellenza ci ha portato in dodici anni in serie B. Ma c’è un altro grande traguardo che mi inorgoglisce: all’inizio non avevamo nessun giovane di proprietà mentre oggi con 400 giocatori e 27 società affiliate vantiamo uno dei migliori vivai calcistici d’Italia”.
Come è stato possibile tutto questo? “I risultati si ottengono lavorando seriamente e facendo scelte forti”.
In cosa è uguale e in cosa è diverso guidare un’impresa e una società sportiva? “Il Pordenone Calcio, con 10 milioni di euro di giro d’affari e un centinaio di collaboratori, è un’impresa vera e propria, che richiede quindi alla base un’organizzazione molto efficiente. Certamente la gestione di una società sportiva è più complicata per tutta una serie di fattori. Non solo per gli imprevedibili infortuni, ma anche perché con il rinnovo dei giocatori ogni anno si deve ricominciare da capo a istruire i nuovi sui valori e sullo spirito del Pordenone Calcio”.
Con la promozione in serie B sperava in una reazione diversa del tessuto imprenditoriale locale? “I tifosi sono stati meravigliosi, mentre gli imprenditori non hanno colto appieno la grande opportunità di visibilità che un campionato di alto livello può portare alla città e al territorio. Purtroppo, si è così confermato uno scarso senso di appartenenza, sia tra i piccoli sia tra i grandi imprenditori, abituati nella gran parte dei casi a navigare ‘sotto costa’. Presto, grazie a un dossier, porteremo loro dati concreti sulle ricadute economiche. Anche perché sul Pordenone Calcio rimane molto alta l’attenzione, invece, dell’imprenditoria veneta”.
Come vuole festeggiare il centenario del Pordenone che ricorre proprio nel 2020? “C’è da chiederlo? Ovviamente, rimanendo in serie B!”.