La carestia dei chip sta fermando le fabbriche. La componente elettrica è ormai fondamentale per tutto quello che ci circonda, dalle automobili agli smartphone, agli elettrodomestici, ai computer. Alcuni settori hanno fatto scorte. Altri non sono riusciti a rifornirsi a sufficienza. La conseguenza è che i prezzi sono andati alle stelle. Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company), leader mondiale della produzione di chip, ha già dichiarato che aumenterà i prezzi tra il 10 e il 20% nel 2022. Oltre il danno la beffa, perché i consumatori devono aspettare anche diversi mesi, se vogliono acquistare l’ultimo modello di smartphone o semplicemente una lavatrice. La domanda di prodotti di alta tecnologia era già molto alta nel 2019, prima della pandemia. Ma nel 2020 con il Covid e il conseguente lockdown, le fabbriche si sono fermate, perché i dipendenti non potevano andare a lavorare, quindi ci sono stati grandi rallentamenti. Inoltre, con il lavoro da remoto e la chiusura delle scuole è aumentato l’uso e, quindi, il bisogno di tablet, pc e smartphone.
L’aumento della domanda di microchip ha portato all’aumento dei prezzi. Quindi, le aziende tech hanno comprato tutti i microchip disponibili. Ma essendo entrata in crisi anche la produzione di microchip il mercato si è fermato. Questo è dovuto alla carenza di silicio, a partire dal quale viene costruito i processori. Oggi l’importanza del silicio, quindi, è pari a quella del petrolio. Ce lo spiega Dino Feragotto, vicepresidente Confindustria Udine con delega proprio al digitale.
“Il problema non è nuovo – spiega -. Rispetto alla domanda di chip si può parlare di sottocapacità produttiva. I leader mondiali della produzione di silicio, meglio di wafer, ossia quella sottile fetta di materiale semiconduttore, il silicio appunto, sulla quale vengono realizzati i chip, essenziale per la creazione di circuiti, sono Taiwan e la Cina. Il mondo è ancora pieno di silicio, ma gli Usa e l’Europa hanno politiche ambientali che ne limitano l’estrazione. Agli Usa, per esempio, non mancano terre rare, ossia ricche di quei metalli che servono per le nuove tecnologie nel sottosuolo”. In realtà, ci sono già progetti per l’apertura di nuovi impianti. “Ma per la loro costruzione – continua Feragotto – ci vorrebbero molti anni e molti soldi. La verità è che non è un problema trovare questi metalli, ma, appunto, estrarli e lavorarli. La filiera è lunga. E, inoltre, si tratta di un processo che inquina. Meglio proteggere l’ambiente e le aziende e andare a comprare il silicio in Vietnam e Malesia”.
Lontano dagli occhi, quindi. Oggi molte aziende friulane non sono toccate dalla carestia. Il segreto per stare a galla è viaggiare a vista ed essere in grado di cambiare in corsa. A causa della carenza di chip, il mercato dell’automobile è praticamente fermo e c’è il rischio di aspettare mesi, se abbiamo la necessità di acquistare una nuova lavastoviglie o uno smartphone di ultima generazione. Ci sono settori che, invece, vanno a gonfie vele e non sono stati toccati affatto dalla crisi del digitale. Anche in questo caso ci fa il punto sulla situazione del mercato della nostra regione e ci spiega i motivi di questa differenza il rappresentante degli industriali.
“La situazione locale – spiega il vicepresidente di Confindustria Udine – essendo le nostre industrie terminali delle filiere dei chip, dipende molto dalla situazione generale”. Ovviamente, non fermare la produzione significa essere in grado di modificare piani e sopportare costi importanti. “Le aziende che conosco – continua Feragotto – riescono a barcamenarsi, modificando continuamente i piani di produzione, sostituendo i chip con compatibili, anche se ciò spesso comporta modifiche ai progetti o al software, creando stock di materiale con impegni finanziari notevoli”. Ci sono, infine, anche aziende che non risentono della crisi. “Quelle che soffrono meno – conclude – sono quelle che producono illuminazioni Led, perché usano altri tipi di silicio, e quelle che fanno pannelli fotovoltaici”. Ad avere grossi problemi sono comunque le fabbriche che fanno grandi numeri. “Le grandi aziende – conclude Feragotto – che sono meno flessibili, come automotive o elettrodomestici, hanno qualche problema in più, visti anche i volumi in ballo”.