Porte aperte ai lavoratori croati. Dal 1° luglio scorso sono cadute le limitazioni italiane che ne regolamentavano l’accesso: erano in vigore dal luglio 2013, quando la Croazia è entrata a far parte dell’Unione Europea. Dopo due anni di ‘prova’, dunque, il Belpaese ha fatto cadere le barriere nel mondo del lavoro tra i due Paesi. Bisogna attendersi ora un arrivo in massa di transfrontalieri da Zagabria e dintorni in Friuli Venezia Giulia? Molto difficile crederlo. Anche perché nella nostra regine sono già moltissimi i lavoratori croati che arrivano al mattino e tornano a casa la sera. Un piccolo esercito. E sono soprattutto irregolari.
“Non ci sono dati certi – spiega Michele Berti, presidente del Consiglio sindacale interregionale (C.S.IR.), che comprende Friuli Venezia Giulia, Veneto e Croazia sudoccidentale per le sigle Cgil, Cisl, Uil, Sssh – ma da una ricerca fatta nel 2007 dall’Università di Trieste era emersa una stima prudenziale secondo la quale in regione lavorassero circa 10mila persone, tra sloveni e croati, la maggior parte dei quali ‘in nero’. Inoltre, c’è l’obbligo di registrazione anagrafica solo per i cittadini dell’Unione europea che si fermano in un altro Stato per più di 90 giorni consecutivi, quindi non per i frontalieri. Quanto ai rapporti regolari dei croati in Friuli Venezia Giulia, i numeri dicono che attualmente parliamo di circa mille unità, dato in leggero calo dal 2009 a oggi, ma abbastanza costante. Per lo più si tratta di forze impiegate in settori quali agroalimentare, cantieristica navale, edilizia, turismo, servizi e commercio. Oltre al lavoro domestico, settore già liberalizzato sin dal 1° luglio 2013”.
Discriminazione tra colleghi
La caduta delle limitazioni è un successo per il sindacato. “Un passo importante, che fa cadere alcuni alibi per personale e aziende, contribuendo alla possibilità di regolarizzare i lavoratori transfrontalieri croati. Ma in realtà è solo un inizio: mentre per chi si trasferirà in Italia non ci saranno problemi, chi fa il pendolare tra i due Stati ha di fronte ancora alcuni ostacoli disincentivanti. Innanzitutto dal punto di vista della tassazione, visto che, nonostante una Convenzione bilaterale esistente, chi lavora in Italia ma è residente in Croazia, deve pagare le tasse da noi e poi, in sede di dichiarazione dei redditi, dichiararle anche nel proprio Paese, con il rischio di essere tassato due volte. La figura del transfrontaliero, infatti, non è riconosciuta nelle Convenzioni bilaterali sottoscritte dall’Italia con Slovenia e Croazia. In seconda battuta, c’è un problema di sicurezza sociale: chi perde il lavoro in Italia ha diritto alla disoccupazione, ma erogata dal Paese dove risiede, quindi, nel caso di Slovenia e Croazia, con cifre e durata inferiori. Da noi, negli ultimi anni, la crisi ha prodotto molti licenziamenti collettivi, che vengono trattati con l’indennità di mobilità, misura che in Slovenia e Croazia non esiste. Questo genera un’altra discriminazione tra colleghi, visto che l’Inps non la paga a chi non è residente sul territorio italiano. Infine, nonostante il Regolamento europeo lo preveda, i nostri Centri per l’impiego non iscrivono lavoratori non residenti, anche se hanno lavorato e perso il posto in Italia. Vale la pena ricordare che le citate problematiche valgono anche per gli sloveni, per i quali la libera circolazione nel mercato del lavoro italiano è in vigore dal 2006, quando è decaduta la limitazione delle quote imposte dal nostro Paese”, sottolinea Berti.
Pericolo procedura di infrazione
Ma c’è anche un altro scoglio, legato al Friuli Venezia Giulia. “La Regione eroga contribuiti e benefit sociali, tutti con il requisito della residenza. Cosa che esclude tutti i transfrontalieri, almeno quelli regolarmente impiegati, che qui pagano le tasse e versano i contributi. Questo potrebbe far incorrere l’Italia in una procedura d’infrazione da parte dell’Unione europea, come già accaduto in passato per un caso simile in Trentino Alto Adige”. Le difficoltà verso la sistemazione di un esercito di irregolari croati permangono. “Il rischio è che in pochi decidano di emergere dal lavoro nero. Servirebbe una maggiore volontà politica dei Governi che, come sindacati di Italia e Croazia, continuiamo ad auspicare e sollecitare”. Altrimenti il rischio è che l’apertura del mercato del lavoro italiano ai croati serva a poco. “Ma un monito – conclude Berti – va fatto anche ai datori di lavoro che, è bene sottolinearlo, possono incorrere in grandi problemi se scoperti a usufruire di personale non in regola”.
Austria e Slovenia, tutele e furbizie
La vita (lavorativa) è certo più agevole per gli italiani che risiedono qui e lavorano all’estero come frontalieri, rispetto ai colleghi croati e sloveni. “Con Francia, Svizzera e Austria – spiega il sindacalista Michele Berti – l’Italia ha firmato accordi bilaterali in materia di fiscalità che contemplano la figura del frontaliero e chiare regole per stabilire la competenza sull’imposizione del suo reddito. Chi abita in Friuli e lavora in Carinzia come frontaliero, per esempio, paga le tasse solo in Italia e ha tutte le tutele in caso di perdita del lavoro”.
Ma c’è anche il caso opposto. “Conosco situazioni di nostri corregionali che hanno trasferito la residenza in Slovenia continuando a lavorare in Italia, a pochi chilometri dal confine. Anche loro devono scontrarsi con il rischio di doppia tassazione e tutte le problematiche di welfare e benefit già citate, che nella maggior parte dei casi colpiscono frontalieri stranieri”.
“In questo caso l’Italia discrimina gli italiani, perché non fa fede la cittadinanza del frontaliero, ma la sua residenza”. Insomma, nello specifico, aver provato a fare i furbi per pagare meno tasse si è rivelato un boomerang.