Sono quasi due mesi che il Governo e le organizzazioni sindacali hanno interrotto gli incontri per una nuova riforma previdenziale a partire dal 2023. Dopo la logica e necessaria pausa dovuta al terribile conflitto in Ucraina, ancora lontano dall’essere risolto, si deve riprendere urgentemente il confronto, da tutti ritenuto necessario per superare la rigidità della legge Fornero e intervenire a favore dei pensionati che sono la categoria più fragile, quella che sta subendo le conseguenze più pesanti del vertiginoso aumento dell’inflazione.
Sul tappeto ci sono al momento tre ipotesi d’intervento sulla flessibilità in uscita. La prima è la proposta del presidente dell’Inps Tridico che parla di una pensione a due velocità. Prevede un’uscita dal mondo del lavoro a 64 anni, incassando subito la parte di assegno contributivo e, poi, a 67 anni, età del pensionamento ordinario, ottenere anche la parte di assegno retributivo.
C’è poi quella dell’economista Raitano che prevede sempre un’uscita dal mondo del lavoro a 64 anni e una penalizzazione del 3% annuo solo sulla parte retributiva. Infine, c’è Opzione Tutti, quella che il Governo preferirebbe, che permetterebbe il pensionamento a partire dai 62 anni effettuando, però, tutto il conteggio con il sistema contributivo.
Queste tre proposte affrontano, però, solamente un aspetto della riforma, vale a dire quello della flessibilità in uscita. Ma per dare ai cittadini una proposta strutturale e duratura bisogna guardare a quella delle organizzazioni sindacali o a quella che avevo avanzato personalmente.
I sindacati, che pure hanno presentato una proposta organica (che prevede i 41 anni per tutti, uomini e donne, per accedere al pensionamento o in alternativa 62 anni con una piccola penalizzazione), oltre a una pensione di garanzia per giovani e per chi svolge lavori di cura, sono divisi, con la Cisl spesso in disaccordo con Cgil e Uil.
La mia ipotesi, invece, prevede 41 anni per tutti – uomini e donne – indipendentemente dall’età e senza alcuna penalizzazione, il pensionamento ordinario diminuito a 66 anni, una flessibilità in uscita a partire dai 62 anni, con penalizzazione dell’1,5% annuo e bonus di 1,5% annuo per rimanere da 66 a 70 anni; per le donne bonus di sei mesi per ogni figlio fino a un massimo di due da valere sia per la pensione anticipata sia per quella ordinaria; pensione di garanzia per giovani e per chi svolge lavoro di cura, abolizione delle finestre di uscita, resa strutturale di Opzione Donna e Ape Sociale e detrazione al 50% per la previdenza complementare.
In più per i pensionati, che sono la categoria più fragile, estensione della ‘no tax area’ fino a 10.000 euro, eliminazione delle addizionali regionali e comunali fino a 30.000 euro e dimezzamento per i redditi da 30.000 a 40.000.
L’importante, ora, è riprendere immediatamente il confronto con le parti sociali. I recenti dati pubblicati dall’Inps evidenziano come oltre i due terzi degli assegni previdenziali è inferiore a mille euro e addirittura il 58,3% sta sotto i 750 euro mensili. La pandemia non ancora sconfitta e la guerra nel cuore dell’Europa non devono essere un alibi per il Governo per affidare a chi vincerà le elezioni 2023 il varo di una riforma che i cittadini italiani aspettano da troppi anni.
Rubrica a cura di Mauro Marino, esperto di economia e pensioni