Non solo i popolari Doc, Dop e Igt, ma anche bio e, perché no, vegan, gluten free o Kosher, ma anche Iso, oppure Uni En… le sigle delle certificazioni nel settore agroalimentare, e abbiamo citato solo alcune di quelle valide in Italia, sono tantissime. Un mare se pensiamo alle oltre quattrocento censite all’interno dell’Unione Europea, una cinquantine quelle attive nel nostro Paese. Rappresentano, però, un indubbio strumento moderno per la competitività.
Per tutte le aziende interessate a commercializzare in canali che vadano ben oltre il proprio spaccio aziendale, adottare uno o più disciplinari che, poi, vengono costantemente verificati da soggetti terzi rappresenta un requisito di partenza, non di arrivo. Questo accade, sempre più, anche per i produttori di materie prime o trasformati intermedi perché è, spesso, è l’intera filiera che si deve adeguare in base alle esigenze di chi si propone, alla fine, al consumatore finale.
Le principali certificazioni in Italia possono essere suddivise in base alla qualità che esse valorizzano: sono presenti attestati per la valorizzazione di qualità organolettiche; quelli che permettono di vantare pratiche etiche o ambientali; certificati che apportano garanzie per la sicurezza alimentare, definendo degli standard igienico sanitari cui attenersi e, infine, attestati che valorizzano determinate qualità tecnologiche o nutrizionali.
Quindi, sono i marchi e i bollini che danno al consumatore finale la garanzia che un prodotto è tipico, oppure sano, ma anche salubre oppure etico. Sulla bontà, forse, è meglio non indagare mai lasciando la ‘certificazione’ al proprio palato.
C’è molto dietro a una sigla Non deve essere sentito come una imposizione, perché può garantire competitività sul mercato.
La certificazione non è una medicina prescritta dal medito o uno dei tanti obblighi imposti dallo Stato. È una scelta di carattere imprenditoriale, ovvero una leva competitiva che va saputa usare. Quindi, bisogna prestare massima attenzione nel momento in cui si guarda a un percorso di certificazione, qualunque esso sia, partendo da un’analisi delle potenzialità intrinseche all’aziende e alle sue risorse umane. Lo suggerisce Fabrizio Piva, amministratore delegato del Ccpb, organismo di certificazione e controllo dei prodotti agroalimentari e no food ottenuti nel settore della produzione biologica e in quella ecocompatibile ed ecosostenibile.
Le aziende vedono ancora le certificazioni con un costo e non un investimento?
“I comportamenti non sono mai così generalizzati. Molte aziende vedono la certificazione come la possibilità di meglio presentarsi sul mercato e valorizzare i propri prodotti e servizi, quindi in un’ottica di investimento. Purtroppo, occorre anche dire che molte certificazioni sono state ‘imposte’ dal mercato o dal settore distributivo e queste vengono vissute dal settore produttivo come un male necessario, ovvero come una conditio sine qua non per accedere a quel determinato mercato o rimanervi. Questo è, purtroppo, il miglior modo per svilire e banalizzare il concetto della certificazione e tutto l’impegno che un’azienda ripone nel perseguire e mantenere uno schema certificativo. Quando una certificazione è vissuta come un obbligo, l’impresa cerca di impegnarsi il meno possibile per raggiungere l’obiettivo imposto e, in questo caso, viene vista maggiormente come un costo e non certo come un’opportunità”.
Nell’ampio panorama delle certificazioni come è meglio orientarsi?
“Innanzitutto, è buona norma approfondire i requisiti posti dagli schemi certificativi e capire se lo standard, ovvero il documento che raccoglie i requisiti da certificare, è coerente con il processo produttivo e i prodotti che l’azienda ottiene o deve produrre. Quindi, analizzare bene le regole dello schema di certificazione e capire quali sono i punti critici del processo da porre sotto controllo per essere certi di corrispondere alle richieste dello standard. In questo modo, si giunge alla definizione di un disciplinare o di un manuale, ovvero di un documento che descrive il modo di produrre, le materie prime e i prodotti ottenuti, i requisisti minimi di controllo e tutti quegli aspetti che portano a pianificare un processo produttivo tale da ottenere determinati prodotti, non tanto per il frutto di qualche ‘congiunzione astrale’ fortunata, ma in virtù di una pianificazione effettiva del processo produttivo. Altro aspetto essenziale è la formazione di tutti i collaboratori presenti in azienda: il processo della certificazione deve coinvolgere tutti i collaboratori perché tutti ne siano coinvolti e diano il loro contributo”.
All’estero i prodotti certificati sono considerati in maniera diversa che in Italia?
“Da questo punto di vista non noto una grande differenza. Il prodotto certificato viene considerato un prodotto che corrisponde a determinati requisiti; è il frutto di un percorso controllato e certificato da un ente di parte terza che opera secondo regole internazionalmente riconosciute e applicate indipendentemente dal Paese in cui si opera. La certificazione, inoltre, viene vissuta anche come un processo che implica una leale competizione, in quanto le aziende certificate in base alla stessa norma devono aver rispettato i requisiti minimi posti dalla stessa”.
Ci sono mercati esteri più sensibili di altri?
“Ritengo che i mercati più ‘evoluti’, ovvero quelli in cui i prodotti hanno raggiunto elevati livelli di complessità e dove i consumatori sono sempre più esigenti, alla fine premiano la segmentazione operata dalla certificazione. La certificazione può consentire a un determinato prodotto di essere declinato in modi differenti a seconda della necessità di intercettare differenti richieste di mercato. Basti pensare a un prodotto semplice come il pane: possiamo trovare quelli integrale, biologico, vegano, il pane caratterizzato da marchi regionali in base alla rintracciabilità delle materie prime e altre caratteristiche che ne possono determinare una qualsiasi differenziazione”.
A un’azienda al primo approccio cosa consigliate?
“Innanzitutto, di analizzare tutte le risorse umane disponibili e comprendere se necessita di qualche consulente per mettere a punto il disciplinare e il processo produttivo al fine di conformarsi allo schema di certificazione prescelto. Il primo passo è di analizzare nel dettaglio tutti i passaggi produttivi e mettere a punto eventuali punti critici che dovessero essere limitanti al raggiungimento dell’obiettivo. Poi, consiglio di scegliere bene l’organismo di certificazione e non solo in base al ‘miglior prezzo’. In molti casi il costo diretto dell’organismo di certificazione è ben poca cosa rispetto ai costi complessivi che l’azienda è tenuta a sopportare per mettere a punto un processo di produzione certificato. Meglio ricorrere a un organismo noto per la sua correttezza, severità e imparzialità, piuttosto che percorrere vie più facili che, poi, si scoprono dannose per l’obiettivo che ci si era posti. È, inoltre, necessario pensare anche alla valorizzazione e al marketing: processi di questo tipo vanno valorizzati e comunicati, affinché il mercato sia posto nelle condizioni di rispondere al meglio”.
Passaporto per l’estero
A controllare i controllori, ovvero gli enti di certificazione, ci pensa un ente apposito delegato dal governo nazionale, ovvero Accredia. Sui vantaggi delle certificazioni si sofferma il suo presidente Giuseppe Rossi.
Nel settore alimentare ci sono centinaia di tipi di certificazione. Come può un’azienda orientarsi?
“In questo settore, l’approccio alla certificazione dipende dalla domanda di mercato che l’impresa vuole soddisfare, legata a una molteplicità di esigenze, quali qualità, sicurezza, salubrità, valore nutritivo, tradizione, sostenibilità. A soddisfarle intervengono vari tipi di certificazione, da quelle obbligatorie a quelle regolamentate, per cui il produttore può scegliere di certificarsi, ma deve farlo in conformità a determinate regole, a quelle volontarie, scelte in funzione delle opportunità di mercato, senza dimenticare le certificazioni richieste dai circuiti di distribuzione. Salvo il rispetto dei requisiti di sicurezza, fissato dalla legislazione per ogni attore della filiera, l’impresa può certificarsi per il sistema di gestione per la sicurezza alimentare, come la Iso 22000, o la rintracciabilità di filiera con la Iso 22005, ovvero certificare i propri prodotti secondo schemi regolamentati (biologico, Dop, Igp, Stg) o disciplinari privati (Brc, Ifs, GlobalgAp, No Ogm), se ha la possibilità di rientrare nei criteri specificamente previsti. La dimostrazione della propria conformità a un determinato standard sarà un biglietto da visita che permette di distinguersi dai competitor, comunicando le esigenze che è in grado di soddisfare. Far certificare il proprio sistema o prodotto da un organismo accreditato significa offrire al mercato un’ulteriore garanzia. In questo caso, infatti, la certificazione è rilasciata da un soggetto che rispetta tutti gli standard applicabili in materia, la cui indipendenza e competenza sono verificate con regolarità dall’ente nazionale di accreditamento”.
Normalmente, i piccoli produttori vedono la certificazioni come un costo e non come un investimento: hanno ragione?
“La qualità igienico-sanitaria degli alimenti è regolata da una serie di standard obbligatori, per tutelare un’esigenza fondamentale di protezione della salute che non è monetizzabile. Nei fatti, la certificazione è un investimento a lungo termine, con cui dimostrare la bontà dei propri prodotti sui mercati internazionali. Alla base di queste certificazioni, dette ‘di terza parte indipendente’, c’è un sistema di verifiche condotte nel rispetto di rigorosi standard internazionali, su cui vigila Accredia, l’ente designato dal Governo per valutare anche la competenza dei 55 organismi di certificazione e dei circa 500 laboratori che operano nel settore alimentare. Il possesso di una certificazione accreditata garantisce, inoltre, il riconoscimento delle proprie competenze a livello internazionale, perché funziona come un ‘passaporto’, esentando i propri prodotti da ulteriori test di conformità”.
Qual è oggi l’atteggiamento del consumatore finale nei confronti delle certificazioni?
“Negli ultimi anni, il consumatore ha orientato le proprie scelte in base a elementi come tipicità, origine ed eco-sostenibilità, per i quali è disposto a spendere qualcosa in più. Da un’indagine di Accredia, in particolare, è emerso che il consumatore medio, pur non sapendo descrivere esattamente un prodotto Dop o Bio, ritiene però la semplice presenza del marchio sinonimo di qualità e motivo di fiducia. Il fatto che 4 milioni di famiglie esprimano qualche preoccupazione sulla sicurezza di ciò che mettono in tavola, evidenzia invece la necessità di una maggiore informazione, dal momento che a fronte di frodi e illeciti pubblicizzati con toni scandalistici, l’Italia effettua sui prodotti alimentari più controlli degli altri Paesi europei”.
Per chi vuole esportare, sono importanti le certificazioni?
“In un contesto macroeconomico globale ancora critico, che incide sul lato dei consumi, un dato in controtendenza è l’export, in particolare dei prodotti a marchio di qualità, per cui l’Italia conta il maggior numero di registrazioni Dop, Igp, Stg dell’Unione europea: circa 270. Nel settore dei prodotti a marchio, di quelli biologici e dei vini a denominazione, questi ultimi oltre 520, le certificazioni rappresentano una leva per la competitività, specie nei processi di internazionalizzazione. Le certificazioni a fronte degli standard privati richiesti dalla Gdo costituiscono un’ulteriore opportunità per il posizionamento dei propri prodotti sui mercati internazionali”.